(4) ETICA e GUERRA / II
Scritto da Roberto il 01 settembre 2007 15:57


ETICA e GUERRA / II

La “foto di Iwo Jima” e la lettura della storia nel film di Clint Eastwood

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A cavallo tra il 2006 e il 2007 il regista Clint Eastwood ha realizzato due film sullo stesso evento: la battaglia di Iwo Jima, episodio importante della guerra del Pacifico, nel corso della Seconda guerra mondiale. Il primo, intitolato “Flags of our fathers”, ricostruisce la battaglia dal lato americano mentre il secondo, intitolato “Letters from Iwo Jima”, la rilegge dal punto di vista giapponese. La mia riflessione prende come punto di partenza il primo e non riguarda il valore artistico dell’opera ma due quesiti particolarmente interessanti che esso pone: uno (e su questo mi concentrerò) è se la “foto di Iwo Jima” sia vera o falsa e l’altro è che cosa sia un eroe di guerra.

 

La “foto di Iwo Jima” è una delle immagini più famose della Seconda guerra mondiale (http://www.iwojima.com/raising/lflaga2.gif); mostra un gruppo di 6 marines nel momento in cui (nel febbraio 1945) issano la bandiera americana sul monte Suribachi, appena conquistato, e ha avuto una sua storia sia come documento che come mezzo per promuovere la raccolta di fondi attraverso i war-bonds USA nel 1945. La storia è legata al fatto che la bandiera, in realtà, fu issata due volte: la prima, una bandiera di piccole dimensioni, fu innalzata dal plotone che (dopo una prima puntata esplorativa da parte di una piccola pattuglia) effettuò la ricognizione di controllo del vulcano (il Suribachi è un vulcano) quando sembrò cessare la resistenza giapponese (la mattina del 5° giorno dallo sbarco); la seconda, la bandiera che si vede nella foto, fu innalzata poche ore dopo e l’evento fu fotografato da un giornalista civile (Rosenthal) e filmato da un operatore militare. Il motivo del doppio alzabandiera è che il ministro Forrestal (Segretario della Marina), che era in zona e voleva assistere alla fase finale dei combattimenti, chiese al comandante dei Marines (Generale Smith, che comandava imbarcato) la bandiera che stava sventolando sulla vetta; il Tenente Colonnello Johnson, che comandava il II Battaglione sul campo e che voleva conservare l’originale come cimelio per il reparto, dette ordine di sostituirla. I 6 marines ritratti nella foto fanno quasi tutti (cinque di essi) parte di una pattuglia mandata, dopo il primo alzabandiera, sia per stendere un collegamento telefonico che, appunto, per portare la nuova bandiera, mentre il sesto era salito con il plotone di ricognizione e fu chiamato a dare una mano. Il tenente Schrier (comandante del plotone) impartì gli ordini per ammainare la prima bandiera e innalzare seconda.

 

Un punto chiave è che nei giorni successivi, quando la foto divenne famosa e a qualcuno venne l’idea di chiamare i protagonisti in patria per sostenere la raccolta dei fondi, fu commesso un errore di identificazione, grazie anche al fatto che quasi tutte le persone ritratte sono di spalle; così al soldato più a destra fu attribuita l’identità di un altro. Non c’è dubbio, dunque, che la foto debba essere considerata “falsa”, se pensiamo che, all’epoca, tutti la presero per la foto “della conquista della vetta del Suribachi”, in molti casi sicuramente immaginando che fosse stata issata subito dopo i combattimenti e da soldati che avevano appena finito di combattere; potrebbe essere classificata, perciò, un falso come tanti ne sono documentati nella storia del giornalismo (uno molto famoso e molto più recente, rivelato anche questo alcuni anni dopo, è la notissima foto del cormorano ricoperto di petrolio che fu assunta come emblema della Prima guerra del Golfo). Innanzitutto va, però, precisato che non ci fu alcuna preparazione tecnica: la cerimonia era una ripetizione di quella originale (di circa due ore prima) e seguiva una ricognizione, non i combattimenti decisivi, ma l’azione ritratta fu spontanea, e Rosenthal ha sempre presentato lo scatto più famoso della guerra del Pacifico (e i resoconti convergono nel confermare la versione) come un gran colpo di fortuna. Inoltre, forse, almeno nel caso della foto di Iwo Jima, per dare una valutazione ponderata sull’evento bisogna allargare la visione, considerarla in un contesto più complesso.

 

Il film, dopo la lunga sequenza che ricostruisce la battaglia, si snoda sulla vicenda umana di tre dei soldati ritratti nella foto (i tre superstiti), che vengono richiamati in patria per fare propaganda alla raccolta di fondi per la continuazione della guerra; oggi sappiamo che la conclusione era vicina ma, al tempo, non c’era alcuna previsione certa[1] e, anzi, c’erano molte preoccupazioni su come poter continuare a combattere perché una guerra, oltre a tutte le sofferenze umane che comporta, ha sempre anche dei costi economici impressionanti. La vicenda umana dei soldati è caratterizzata da quella difficoltà relazionale che è ormai così ben documentata nella storiografia almeno di entrambe le guerre mondiali (per non parlare, per esempio, di quella del Viet Nam): l’impossibilità, per i reduci, di far capire alla popolazione civile o, comunque, a chi non aveva combattuto, la traumaticità dell’esperienza della vita al fronte e del combattimento; in sostanza l’impossibilità di essere compresi. A questa difficoltà si aggiunge il dramma personale delle famiglie di due caduti: la prima è quella del soldato identificato per errore, convinta che la foto ritragga il figlio; la seconda è quella del soldato veramente presente, perché la madre riconosce il figlio nella foto, pur essendo questi ritratto completamente di spalle, e lotta per far accettare la sua certezza. La cosa sembra aggravata, emotivamente ed eticamente, dal fatto che uno dei tre reduci, pur essendo in servizio su Iwo Jima, era un portaordini e non aveva partecipato direttamente agli aspri combattimenti per la conquista del monte. Rischia di insorgere, quindi, il dubbio che al falso si possa aggiungere una dose di ingiustizia.

 

Come, dunque, prendere posizione rispetto alla foto? La questione non è secondaria come potrebbe sembrare perché ha un risvolto implicito di grande peso: anche se praticamente nessuno lo dichiara apertamente, la conclusione che la foto sia "falsa" cambia la percezione non solo (e non tanto) dell'evento in se stesso quanto di tutta la Seconda guerra mondiale e del ruolo degli Stati Uniti (e, in definitiva, di tutti gli Alleati) in essa. La posizione che si prende sulla questione della foto ricade, per esempio, sul ruolo dei personaggi, che da eroi semplici, lineari, possono trasformarsi in strumenti di una manipolazione politica e mediatica; inoltre apre a dubbi sulla guida della guerra, sulle finalità "vere" del conflitto e sul sistema-nazione perché, se le sofferenze personali sono degradate a puri mezzi per ottenere risultati politici, per manipolare il consenso, la distinzione fra sistemi democratici e dittature sfuma, aggrediti e aggressori sembrano molto più simili di quanto non venga dichiarato. Proprio il forte potere evocativo della foto, una volta che vengano a mancare i suoi presupposti di "verità", genererebbe un effetto-rimbalzo che metterebbe in discussione la valutazione, ormai ampiamente confermata dalla storiografia, della Seconda guerra mondiale come una guerra non voluta dalle nazioni democratiche, ricercata invece ostinatamente dalle dittature di stampo fascista e, quindi, "giusta", dal punto di vista delle prime, che furono anche le nazioni vincitrici.

 

Prendere una posizione consapevole e fondata sulla questione della foto è, quindi, importante; il punto è che se la riflessione si concentra sull'evento in se stesso, se si circoscrive all'aspetto documentale, la risposta è facile (il documento può essere considerato falso) ma appare anche riduttiva: è tutto qui? E ci potremmo accontentare di una via d'uscita semplice come potrebbe essere, per esempio, quella di mantenere il giudizio complessivo sulla guerra e di bollare la propaganda costruita intorno alla foto come un semplice episodio marginale di scorrettezza? Se puntiamo a riflettere rigorosamente non possiamo evitare di pensare che quest'ultima può essere una comoda scappatoia ma, in quando basata sull'ideologia e non sull'analisi rigorosa, non può soddisfare il bisogno di capire meglio e decidere in modo consapevole e fondato. C’è, allora, un altro punto di vista, c’è un altro piano di lettura che ci permetta una comprensione più ampia?

 

La risposta, secondo me, è affermativa e il film, per quanto non prenda posizione esplicita sulla questione (anzi, forse non si ponga nemmeno il problema, nei termini in cui viene posto qui) evidenzia questo diverso piano attraverso il personaggio del funzionario governativo responsabile per la raccolta dei fondi; in un momento di crisi, nel quale il disagio di uno dei tre soldati si manifesta con l’intenzione di tornare al fronte, il funzionario gli fa un discorso di questo tipo (cito a memoria): “Va bene, soldato, puoi tornare al fronte, però abbi cura, prima di salire sull’aereo, di riempirti le tasche di sassi perché dovrai tirare quelli ai giapponesi dato che, se non raccogliamo 14 miliardi di dollari con questa campagna, non avremo i soldi per comprare i proiettili; e bisogna anche vedere se l’aereo si potrà alzare, dato che forse non potremo comprare la benzina”. Questo discorso, che a una prima lettura può sembrare una semplice manifestazione di cinismo politico, ha anche un significato di intervento di metodo, in quanto sposta il livello del discorso e invita il destinatario, cioè il soldato che soffre a livello individuale e valuta la situazione solo attraverso il filtro di questa sofferenza, a introdurre elementi di valutazione a un livello diverso, di sistema. Su questo, anzi, il funzionario va oltre: spiega al soldato che, se mancheranno le risorse, gli Stati Uniti saranno costretti a fare la pace con il Giappone prima di averlo sconfitto militarmente e, quindi, lo dovranno sicuramente affrontare di nuovo in una guerra successiva, ricominciando tutto daccapo e probabilmente da condizioni di maggiore debolezza.

 

A proposito delle risorse e del loro reperimento mi sembra utile, prima di procedere, richiamare la situazione finanziaria degli Stati Uniti in quella primavera del 1945 (Bradley-Powers, 2000):

Una guerra mondiale combattuta su due fronti e le enormi spese segrete per la fabbricazione della bomba atomica avevano prosciugato i fondi della nazione … Nel concetto della democrazia americana degli anni Quaranta le spese di guerra erano considerate al di fuori del normale bilancio federale e un governo di guerra era obbligato a presentare più volte la propria situazione ai cittadini … sperando in una volenterosa risposta patriottica.

Nell’ambito di questa cornice, lo stato dei conti era il seguente (Bradley-Powers, 2000): su un bilancio di 99 miliardi di dollari per quell’anno fiscale, la guerra ne aveva già assorbiti 88, ma le entrate del Governo ammontavano soltanto a 46 miliardi; è in questo contesto che fu lanciata la campagna per raccogliere 14 miliardi di dollari.

 

Il problema cambia aspetto: ciò che entra in campo, a questo punto, è il senso della guerra che gli Stati Uniti stavano combattendo e il significato che può assumere l’atto di un individuo nella cornice di questo senso più generale. La domanda diventa: la prosecuzione della guerra per la sconfitta MILITARE delle potenze dell’Asse (cioè di quelle rimaste belligeranti, Germania e Giappone, perché l’Italia era già stata sconfitta nel 1943) era un obiettivo fondato, praticabile, irrinunciabile? Se traguardiamo gli eventi da questa prospettiva il quadro appare diverso; naturalmente si può comunque essere d’accordo o meno, sulla nuova questione, ma è su questo che si deve argomentare, non sulla validità astratta di un atto individuale o sulla “verità” in senso tecnico e documentaristico di una foto. Se ragioniamo a livello di sistema cambia il problema, cambiano i ragionamenti, possono cambiare (o almeno articolarsi molto di più) le conclusioni. Vediamo; e, in questo andare a vedere, rispettiamo un criterio che, secondo me, dovrebbe essere imprescindibile in casi come questo: teniamo presente il quadro dell'epoca, cioè il contesto effettivo nel quale vennero assunte le decisioni ALLORA, non quello che possiamo vedere oggi, a oltre 60 anni di distanza.

 

Rispetto a cosa si può ragionare sulla fondatezza o meno dell’obiettivo di sconfiggere militarmente le potenze dell’Asse? Un dato che mi sembra importante è l'origine storica del principio, che ha una data precisa e nomi e cognomi come riferimento: il principio della resa senza condizioni fu fissato nella conferenza di Casablanca tra le potenze Alleate, nel gennaio 1943; fu proposto da Winston Churchill (primo ministro inglese) e accettato (non in tutti i casi entusiasticamente, va detto) dalle altre potenze; fu rigidamente applicato. A posteriori fu criticato decisamente da storici e militari ALLEATI, e questo è particolarmente interessante; Basil Henry Liddle-Hart, militare e notissimo storico militare, ha criticato la strategia della resa senza condizioni come una strategia che "costrinse" Germania e Giappone a battersi fino all'estremo, chiudendo ogni spiraglio alla trattativa e, quindi, appesantendo il bilancio delle perdite sul campo e i costi materiali ed economici della guerra. Liddle-Hart è un tecnico e, come tecnico, ha sicuramente ragione; tuttavia, nella sua critica, non tiene conto di due elementi che, invece, erano ben presenti ai vertici politici: la natura dei regimi totalitari riuniti nell'Asse (in particolare le due nazioni principali, la Germania e il Giappone) e l'esperienza della Prima guerra mondiale.

 

I regimi totalitari di Germania e Giappone non erano solo caratterizzati dalla assunzione del potere da parte di una dittatura di destra o di una casta militare ma, per motivi storici diversi e con forme diverse, dall'occupazione capillare di tutti i gangli del funzionamento della macchina politica, dall'asservimento totale del sistema-Stato al potere dittatoriale, fino al punto di indottrinare la massa del popolo e di cancellare (materialmente, attraverso l'eliminazione fisica di ogni potenziale avversario) la possibilità che sorgesse un'opposizione, a livello di base come a livello di vertice. Tutto questo è particolarmente evidente nel caso tedesco, al quale farò più specifico riferimento, ed è ampiamente documentato; le due guerre mondiali, infatti, sono stati eventi documentati come nessun altro prima, in particolare la Seconda nella quale (e per la prima volta nella storia) i vincitori acquisirono anche gli archivi delle dittature sconfitte e li misero a disposizione degli studiosi. Questa sterminata documentazione, sulla quale almeno due generazioni di storici ed esperti vari hanno lavorato, conferma che la natura profonda della dittatura nazista è costituita dal disegno, intenzionale e perseguito minuziosamente, di eliminare ogni variabilità significativa dal corpo sociale, di realizzare una mostruosa società nella quale avessero spazio una sola dimensione di pensiero e persone di un solo tipo. Gli altri potevano essere, nella migliore delle ipotesi, solo schiavi. E il disegno si può considerare (quasi) riuscito, se in effetti nessuna forza fu capace, dall'interno della Germania, di opporsi fattivamente (anche se tentativi non mancarono) al disegno prima folle e, alla fine, suicida.

 

Ma è solo una considerazione di tipo politico-sociale-etico che rendeva NECESSARIA, secondo i vertici politici Alleati, la sconfitta militare delle potenze dell'Asse, e che sconsigliava di limitarsi a costringerle a trattare? Io credo ci sia anche un'esperienza, molto concreta e vissuta direttamente da una gran parte dei protagonisti di parte Alleata: il modo in cui si era conclusa la Prima guerra mondiale e le percezioni soggettive che aveva innescato da una parte e dall'altra, modo e percezioni che la storiografia converge nel porre tra le cause principali della Seconda; in particolare appaiono significativi gli eventi sul fronte occidentale, dove combatteva l'esercito tedesco. A partire dall'ottobre 1918, infatti, dopo una serie di offensive reiterate nei mesi precedenti (a partire da marzo), l'iniziativa passò agli Alleati, che ruppero le linee tedesche e cominciarono a respingere il nemico verso la frontiera della Germania (non va dimenticato che, grazie alla superiorità iniziale e, anche, all'invasione proditoria del Belgio, la guerra sul fronte occidentale si combatté interamente in territorio francese e belga); quando la ritirata tedesca arrivò nei pressi della frontiera anteguerra, la Germania chiese l'armistizio e si arrivò a un cessate il fuoco prima che i vincitori oltrepassassero il confine. E' documentata la sorpresa dei reparti Alleati che, in seguito all’armistizio, occuparono piccole zone di frontiera tedesche: il territorio era intatto, i paesaggi lindi e ordinati come sempre, mentre le zone francesi e belghe nelle quali si era combattuto (e dalle quali venivano quegli uomini) erano devastate a livelli impensabili e indescrivibili. E' documentata la posizione assunta dal generale Pershing (comandante dell'esercito americano in Francia), che insisteva per non concedere l'armistizio prima che le armate vincitrici fossero penetrate in profondità in territorio nemico.

 

La vittoria dell'11 novembre fu, a tutti gli effetti, una vittoria militare dovuta alla superiorità acquisita, con il tempo, dagli eserciti inglese, francese e americano; ma così non apparve ai tedeschi. Ancora dal fronte, al momento di sciogliere i reparti, ufficiali superiori tedeschi arringarono le proprie truppe affermando che dovevano piegarsi all'armistizio, deciso dai politici, ma che dovevano considerarsi non vinti sul campo perché la Germania non era stata invasa; la leggenda di una sconfitta dovuta agli intrighi sul fronte interno si sviluppò con velocità incredibile e fece presa su vaste masse di persone. Dall'altra parte, dopo il sollievo per la vittoria, si diffuse presto la consapevolezza che le ferite accumulate da individui, territori e sistemi-nazione, non si sarebbero potute compensare con nessuna riparazione, e un esacerbato risentimento prese piede. Non è secondario ricordare anche che, quando si dice che una gran parte dei protagonisti della Seconda guerra mondiale avevano vissuto direttamente la Prima, non si esprime un concetto astratto: i figli e i familiari più stretti dei capi combattevano in prima linea, e ad ogni livello delle società inglese e francese (per capirsi: il vertice supremo, ovvero Joffre, il generale Foch, il primo ministro Clemenceau, alti personaggi civili e militari e i ministri inglesi) si erano patiti lutti gravissimi. I vertici politici Alleati vedevano di fronte alle loro nazioni, che avevano fatto di tutto per evitare la guerra, un nemico irriducibile, spietato, che aveva dimostrato con i fatti le sue intenzioni di schiavizzazione e sterminio; non si deve dimenticare, tra l’altro, che i reparti speciali delle SS entrarono in azione fin dai primissimi momenti della guerra, quando era ancora in corso la campagna di Polonia. Si trattava, oltretutto, di un nemico già battuto una volta e tornato ad aggredire; aveva senso considerare la sconfitta MILITARE delle potenze dell'Asse un obiettivo strategico irrinunciabile.

 

Ripeto: si può dissentire da questo obiettivo (l'hanno fatto anche diversi storici di parte Alleata), ma è di questo che si deve discutere e, in un tale contesto, la questione della foto di Iwo Jima cambia aspetto. Mentre i processi di governo dei sistemi autoritari sono basati sull'autorità e sulla forza, quelli dei sistemi democratici sono basati sulla ricerca del consenso; in tale prospettiva la foto va considerata nella sua doppia natura di documento e di immagine e se, come documento, si può affermare che è falso, come immagine ci si deve chiedere se aveva un fondamento reale e se esprimeva o meno lo spirito profondo di un metodo sociale (la democrazia) e l'obiettivo strategico che le forze americane stavano perseguendo; per maggiore chiarezza forse è utile ricordare che dei 20.000 giapponesi di stanza sull’isola, ne perirono 18.000 e ne furono catturati 216 mentre le forze alleate subirono 26.000 vittime, di cui 7.000 caduti (circa un terzo dei marine morti durante tutta la Seconda guerra mondiale). Se, dunque, la risposta è "SI" allora l'immagine era "vera" quanto il documento si poteva considerare "falso". Una cosa che colpiva gli americani di stanza in Gran Bretagna, dopo il 1943, era la stanchezza della popolazione inglese, al 5° anno di guerra e ancora con diverse incertezze sul futuro; in quello scorcio di 1945 anche la popolazione americana (che era "solo" a poco più di 3 anni di guerra) era stanca e, applicando le regole della democrazia, il governo domandava alla gente il sostegno economico per continuare a combattere. Non si può chiedere alla massa di orientarsi assumendo, in modo capillarmente distribuito tra tutti gli individui, un punto di vista strategico; non ci sono le condizioni, né materiali né di ruolo, perché ciò avvenga (a meno di non richiamarsi a una utopia). Ma è molto diverso usare la forza per allineare in modo coatto i comportamenti oppure chiedere il consenso attraverso, anche, immagini evocative.

 

E sulle immagini connesse alla guerra va fatta un'ultima considerazione, di natura tecnica, stavolta: il campo di battaglia non può essere documentato nella sua realtà, mentre gli eventi sono in corso, per motivi strutturali. Era il problema dei registi impegnati a girare i "combat film": per poter mostrare avevano bisogno di eventi osservabili con chiarezza, magari da diverse angolature, con il tempo di effettuare gli aggiustamenti tecnici necessari (luci, esposizione e via dicendo); ma sul campo di battaglia vero la regola è mostrare e mostrarsi il meno possibile, oppure agire il più rapidamente e meno espostamente possibile. Il campo di battaglia non è compatibile con lo spettacolo, quindi è una fonte di contraddizioni strutturali tra i documenti e le immagini.



Bibliografia essenziale

Battaglia di Iwo Jima su Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Iwo_Jima

La “foto di Iwo Jima” su Internet: http://www.iwojima.com/raising/lflaga2.gif


Bradley, James; Powers, Ron (2000), Flags of our fathers, RCS Libri, Milano.

Churchill, Winston Stanley (1948-1954), La Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano.

Foster, Simon (1994), Okinawa – 1945: l’ultima battaglia, Mondadori, Milano.

Gilbert, Martin (1994), La grande storia della Prima guerra mondiale, Mondadori, Milano.

Gilbert, Martin (1990), La grande storia della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano.

Goldhagen, Daniel Jonah (1997), I volonterosi carnefici di Hitler – I tedeschi comuni e l’Olocausto, Arnoldo Mondadori, Milano.

Liddell Hart, Basil Henry (1970), Storia militare della Seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano.

Liddell Hart, Basil Henry (1968), La Prima guerra mondiale, RCS Libri, Milano.

Liddell Hart, Basil Henry (1948), Storia di una sconfitta – La Seconda guerra mondiale raccontata dai generali del Terzo Reich, RCS Libri, Milano.

Millot, Bernard (1968), La guerra del Pacifico, RCS Libri, Milano.

Shirer, William L. (1960), Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino.



[1]  Vale la pena di ricordare, per esempio, che la bomba atomica non era operativa e non si sapeva ancora quando lo sarebbe stata, che già si stavano facendo piani per l’invasione di Kyushu (l’isola più meridionale del Giappone) nel novembre 1945 e che si prevedeva l’attacco al cuore dell’Impero giapponese (lo sbarco nell’isola di Honshu, la più grande) per la primavera del 1946. Il tutto con stime preliminari, basati sulle campagne condotte fino a quel momento, di circa 1 milione di perdite per la sconfitta definitiva del nemico.