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(4) IL PESO dei FATTI / II (Prima parte)


IL PESO dei FATTI / II

I sistemi di comando nella Seconda guerra Mondiale alla prova dei risultati
(Prima parte)

_____________________



PREMESSA – Sui “perché” degli eventi storici


A valle di un evento storico, quando siamo di fronte ai suoi esiti e si guardano le cose in retrospettiva, la tentazione di chiedersi “perché” le cose siano andate in un certo modo, e non in un altro, è quasi irresistibile. E lo è a dispetto della riconosciuta impossibilità di trovare una vera risposta, cioè di definire deterministicamente una catena di nessi causali che “spieghi” la sequenza delle azioni e i suoi risultati.


Qui la riflessione è sviluppata nel contesto della Seconda guerra mondiale, evento storico di particolare ampiezza, portata e complessità, rispetto al quale il tentare di stabilire rapporti causali precisi tra le varie componenti si risolverebbe in un sostanziale atto di arbitrio. Peraltro questo limite sembra strutturale, cioè tale che, anche nel caso di eventi di ampiezza molto più limitata e di durata molto più circoscritta, la complessità sia irriducibile e, quindi, si confermi l’impossibilità di definire precisi rapporti di causa-effetto.


Per maggior precisione, prima di entrare nello specifico, vale forse la pena di abbozzare un chiarimento concettuale sul termine complessità, perché il limite strutturale appena delineato è connaturato alla complessità. Si dice, dunque, che un sistema è complesso allorché le sue componenti presentano simultaneamente due caratteristiche antitetiche tra loro: sono intercorrelate (cioè ci sono dei rapporti, dei legami tra le componenti) ma sono anche autonome. Il risultato è che ogni modifica in una qualsiasi componente si ripercuote sulle altre, ma la natura e la misura di questo effetto non è calcolabile perché, grazie ai margini di autonomia che possiedono, la stessa modifica può produrre effetti diversi su componenti diverse o, anche, sulla stessa componente in momenti diversi. Per contro, ma per lo stesso motivo, modifiche diverse possono produrre effetti simili sulla stessa componente o, anche, su componenti diverse. I sistemi complessi, dunque, non sono indagabili deterministicamente per loro natura; gli eventi storici sono, indubbiamente, pienamente assimilabili a sistemi di questo tipo.



Le ragioni di una vittoria


Se, come abbiamo visto, non è (e non sarà mai) possibile parlare di una “causa” della vittoria Alleata nella Seconda guerra mondiale, pure può avere senso andare a cercare quei FATTORI, cioè quell’insieme di circostanze e di eventi specifici che, alla fine, hanno prodotto il risultato che conosciamo: la resa incondizionata delle potenze dell’Asse, la sconfitta MILITARE delle dittature di stampo fascista che avevano scatenato la guerra.


In questo esercizio si sono impegnati molti storici e, al passare degli anni e all’affinarsi delle analisi, un quadro coerente comincia ad emergere; l’evento facilitante, che ha consentito di delineare questo quadro in tempi relativamente brevi, è stato il fatto (nuovo sul piano della storia) del sequestro degli archivi delle potenze dell’Asse e la loro apertura agli studiosi. Vediamo dunque gli elementi che, finora, sembrano essere emersi con sufficiente chiarezza.


Certamente ci fu una questione di RISORSE MATERIALI; le potenze Alleate avevano un potenziale produttivo e una disponibilità di risorse enormemente superiore a quelli delle potenze dell’Asse, e questo fu un fattore cruciale, sul lungo termine. Tuttavia non possiamo considerarlo “la causa” della vittoria Alleata perché al momento dello scoppio della guerra era, appunto, potenziale ma non attuale; a livello di potenza effettivamente impiegabile, all’inizio della guerra, il vantaggio tedesco era forte e il Nazismo arrivò a un passo dal soverchiare le potenze democratiche. L’ingresso in guerra degli Stati Uniti (7 dicembre 1941) cambiò la situazione ma, prima che ciò avvenisse, erano passati oltre due anni dall’inizio della guerra e oltre 1 anno da quando l’Inghilterra era rimasta sola a fronteggiare i nazisti (dalla sconfitta di Francia, nel giugno 1940), protetta solo dalla condizione isolata, dalla sua marina e dalla sua determinazione; di fatto il problema strategico fondamentale, per gli Alleati, si presentava come quello di riuscire ad evitare la disfatta finché il dispiegamento del maggior potenziale produttivo non avesse spostato l’equilibrio a loro vantaggio.


Certo la quantità dei rifornimenti USA prima all’Inghilterra e, dopo, alla Russia (attaccata nel giugno 1941) appare davvero impressionante, ma quando la potenza americana entrò pienamente in campo le forze tedesche erano già in fase di logoramento per effetto della tenacia e dello spirito di sacrificio di eserciti inferiori come equipaggiamento e come addestramento ma meno disposti a cedere di quanto non pensassero Hitler e i comandi tedeschi. E comunque il materiale bellico tedesco rimase qualitativamente superiore a quello Alleato (almeno a livello delle forze di terra) fino alla fine della guerra; dunque sarebbe fuorviante sostenere che furono le risorse materiali “la” causa della vittoria Alleata, anche se ebbero un peso di grande importanza.


Certamente ci fu, anche, una questione di RISORSE UMANE; la storia militare mette ai primi posti, fra i fattori di fallimento nelle battaglie e nelle guerre, la sottovalutazione dell’avversario, e i tedeschi e i giapponesi
[1] nella Seconda guerra mondiale, anche grazie ad un effetto di auto-abbaglio legato proprio alle prime folgoranti vittorie, sottovalutarono pesantemente i loro avversari. La determinazione dell’Inghilterra a continuare la guerra anche da sola, espressa dal Governo ma sostenuta da tutta la popolazione, nonostante i sacrifici e gli intensi bombardamenti sulle città, apparve incomprensibile ai tedeschi; così come tedeschi e giapponesi rimasero sorpresi dalle capacità di resistenza e di sacrificio dei soldati avversari, nonostante la loro impreparazione e il loro cattivo equipaggiamento nel periodo iniziale della guerra (in particolare le sottovalutazioni furono pesanti rispetto ai soldati russi, da parte tedesca, e ai marines americani da parte giapponese). E parallelamente furono enormemente sottostimati il potenziale prima russo e, dopo, americano (la Germania dichiarò guerra agli Stati Uniti come un atto dovuto, un automatismo connesso alla logica della guerra scatenata dal Nazismo).


D’altra parte le qualità militari dei soldati tedeschi (in termini di motivazione, addestramento e spirito di sacrificio) erano molto elevate, come non hanno avuto alcuna difficoltà a riconoscere autorevoli storici di parte Alleata i quali (a partire del celebre Basil Henry Liddell Hart) si esprimono di frequente con vera ammirazione nei confronti di questo aspetto. Dunque neanche la qualità del potenziale umano, da sola, può essere presa come causa unica della vittoria.


Certamente ci fu una questione di CAPACITA’ di INTELLIGENCE perché, al di là di un fisiologico alternarsi di successi e insuccessi, il vantaggio in questo campo è stato praticamente sempre degli Alleati. Sul piano dello spionaggio, la conoscenza americana del codice crittografico militare giapponese, risalente a prima della guerra, è divenuta nota abbastanza presto, mentre è stato reso pubblico molto più tardi il lavoro degli esperti inglesi installati a Bletchley Park (non lontano da Londra), che decifravano i messaggi criptati dall’esercito tedesco con l’apparecchio “Enigma”; è provato che questa capacità dei Servizi Segreti Alleati sta alla base di alcuni importantissimi successi come, per esempio: l’individuazione dell’isola di Midway come obiettivo di una potentissima forza aeronavale giapponese nel giugno 1942 e la vittoria nella successiva battaglia aeronavale; l’intercettazione, da parte dei caccia americani, dell’aereo che trasportava l’Ammiraglio Yamamoto (comandante in capo della marina giapponese) e il suo abbattimento, con la morte dell’Ammiraglio; la trappola tesa dalla Mediterranean Fleet (la flotta inglese del mediterraneo) alla Marina Militare italiana a Capo Matapan; le informazioni relative all’offensiva su Mosca dell’esercito tedesco, nell’autunno 1941, che consentirono ai russi una preparazione efficace della difesa e del successivo contrattacco.


Sul piano del controspionaggio è ben noto il successo nel mantenere segreto il luogo dello sbarco in Europa nella primavera del 1944 (la Normandia) attraverso un lavoro di depistaggio e disinformazione che annovera nel proprio ambito dei veri capolavori, alcuni dei quali probabilmente non verremo mai a conoscere
[2]. Ma c’è un successo ancora più grande, anche se meno noto: la Germania non riuscì mai a impiantare una rete stabile di spie in Inghilterra, nonostante i numerosi tentativi, la maggior parte dei quali si risolveva col reclutamento come doppiogiochisti delle spie incaricate dai tedeschi (con il duplice risultato, per gli inglesi, di ottenere sia la disinformazione del nemico che la sua tranquillità, in quanto era convinto di averle in funzione, le spie[3]). Al contrario la rete spionistica di parte Alleata rimase attiva per tutta la guerra e registrò al suo attivo l’intercettazione e la trasmissione di parecchie informazioni cruciali; molto noti sono alcuni casi della rete sovietica, come quelli di Richard Sorge (che trasmetteva informazioni carpite all’ambasciata tedesca di Tokio) e della “Rote Kapelle” (l’”Orchestra Rossa”), rete spionistica che operava in Germania.


D’altra parte non dobbiamo dimenticare che, per esempio, la conoscenza del codice giapponese non permise (e ancora oggi si discute su come sia stato possibile) di prevenire l’attacco a sorpresa alla base americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii; inoltre il codice di “Enigma” era diversificato a seconda della forza armata che lo usava (ce n’era uno per l’esercito, uno per l’aviazione e uno per la marina, più altre varianti specifiche) e veniva variato regolarmente per cui, periodicamente, si verificavano fasi di black-out nella capacità di decifrazione inglese che duravano anche parecchi mesi (particolarmente critico si rivelò quello relativo al codice dei sommergibili, che si estese per quasi tutto il 1942). Poi si sono verificati i casi di notizie vitali trasmesse ma non credute (tra i quali è clamoroso quello dell’appena ricordato Sorge, che preannunciò a Stalin l’aggressione tedesca del giugno 1941 senza essere creduto se non troppo tardi); infine non vanno dimenticati i successi dei Servizi Segreti tedeschi i quali, anche se inferiori a quelli Alleati, non mancarono. Dunque nemmeno la superiore capacità di intelligence, da sola, è in grado di spiegare come fu vinta la Seconda guerra mondiale.


Ancora: non possiamo dimenticare, essendo alla ricerca del differenziale tra potenze Alleate e potenze totalitarie, la questione delle STRATEGIE GLOBALI. Le nazioni Alleate, che non avevano voluto la guerra, seguivano linee strategiche generali concordate e relativamente semplici, basate su questi quattro principi:


*    “Germany first”, cioè l’identificazione della Germania come il nemico principale, al quale doveva essere data la precedenza nelle risorse impiegate per combatterlo.

*     Unitarietà delle decisioni strategiche di portata generale, con impegno a non accettare paci separate con la Germania da parte di nessuna nazione Alleata (principio concordato in una conferenza a Washington nei primissimi giorni del 1942).

*      “Unconditional surrender”, cioè la decisione (presa a Casablanca nel gennaio 1943) di non concedere quartiere al nemico e di accettare solo una resa incondizionata.

*      Attacco dalla periferia al centro: la “fortezza Europa” sarebbe stata attaccata solo dopo aver riconquistato, o comunque messo sotto sicuro controllo, almeno l’Africa e i mari (e possibilmente le nazioni mediterranee, escluso la Francia).


A fronte di questo macro-piano semplice e condiviso, molti storici hanno fatto notare come Hitler, trascurando anche le indicazioni di von Clausewitz, mandasse spesso le sue armate a inseguire obiettivi tutto sommato vaghi come i cereali dell’Ucraina e il petrolio del Caucaso, spesso modificando in corsa le direttrici di spinta, quasi ossessionato dall’idea del possesso delle risorse naturali e incapace di conciliare questa idea con i vincoli delle campagne militari, con la necessità di avere obiettivi chiari e definiti, con le reali potenzialità dell’esercito tedesco, per quanto ben addestrato, equipaggiato e motivato fosse (già a dicembre del 1941, poco prima di morire in un incidente aereo, l’ingegner Todt, capo degli approvvigionamenti, era arrivato alla conclusione che le risorse della Germania non potevano essere sufficienti a vincere la guerra).


Va precisato che la scarsa efficacia di cui si parla riguarda le strategie globali (quelle di origine politica, per intendersi), non quelle militari in senso stretto poiché, su quest’altro piano, la capacità tedesca di sorprendere gli Alleati si manifestò fino al 1944/45 (l’offensiva delle Ardenne). Dunque nemmeno questo fattore, da solo, spiega la vittoria Alleata perché, per esempio, se non ci fosse stata la determinazione inglese, le fulminanti vittorie strategiche militari tedesche del 1940, sul fronte francese, avrebbero potuto giustificare la ricerca di una pace e, di conseguenza, le strategie globali non sarebbero neanche nate.


Oltre a tutto questo, indubbiamente, ci fu l’insuperato vantaggio inglese in termini di POTENZA NAVALE rispetto ai tedeschi: per quanti successi abbiano mietuto gli U-Boot tedeschi, la Marina del Terzo Reich non dominò mai i mari, e le sue grandi navi da battaglia furono complessivamente controllate e, una ad una, distrutte dalla Marina inglese. Il pensiero militare tedesco nella Seconda guerra mondiale rimase ancorato alla terraferma, probabilmente sia per tradizione che per i tempi molto più lunghi che avrebbe richiesto un potenziamento in senso davvero moderno della Marina da guerra; si pensi, per esempio, che quella Germania che aveva inventato il coordinamento aviazione-esercito per la campagne di terra, non colse la novità costituita dall’abbinamento nave-aereo e, di fatto, costruì corazzate avanzatissime ma nessuna portaerei. Per farsi un’idea della superiorità dell’aereo sulla nave, che divenne evidente fin dall’inizio della guerra, basti pensare che la tedesca “Bismarck”, la nave corazzata più moderna e potente allora in linea, fu affondata alla fine della sua prima crociera di guerra (maggio 1940) solo in conseguenza di un unico siluro andato a segno; e il siluro fu lanciato da un aerosilurante “Swordfish”, un biplano (!) il cui modello era molto più vicino alla Prima guerra mondiale che alla Seconda.


Ma se la forza dei tedeschi era nell’Esercito, quella dei giapponesi era nella Marina, e loro erano pionieri nelle tattiche aeronavali; tanto è vero che alle navi inglesi fu impossibile ripetere nel Pacifico il successo ottenuto con la “Bismarck” nell’Oceano Atlantico: la corazzata “Prince of Wales” (che aveva partecipato con successo alla caccia alla “Bismarck”) e l’incrociatore da battaglia “Repulse”, inviati nelle acque della Malesia, uscirono in mare senza copertura aerea, probabilmente a seguito di un’informazione inesatta, e furono entrambe affondate con estrema rapidità, e con perdite insignificanti, da attacchi giapponesi condotti con soli aerei. Dunque neanche questo fattore, da solo, può essere considerato decisivo per comprendere la vittoria degli Alleati.


Prima di procedere oltre vale, probabilmente, la pena di far riferimento a un altro fattore, già sfiorato parlando delle risorse umane: gli ERRORI dell’AVVERSARIO. Non c’è dubbio che in diversi casi la vittoria, o l’evitamento della disfatta, dipesero, per gli Alleati, da errori commessi dal nemico; molti storici prendono ad esempio di ciò l’arresto imposto dagli alti comandi alle forze corazzate tedesche alle soglie di Dunkerque, pausa che permise il reimbarco di oltre 300.000 soldati anglo-francesi che, altrimenti, sarebbero stati uccisi o catturati. Ancora si discute se ciò sia stato dovuto ai timori del generale Rundstedt per le difficoltà di tenuta e di approvvigionamento dei reparti corazzati avanzati o a un intervento “politico” di Hitler, che non voleva umiliare l’Inghilterra ma solo ridimensionarla e costringerla alla pace. Ma furono clamorosi anche altri casi, come l’incredibile sottostima del potenziale russo, in termini sia di risorse umane (durante la difesa di Mosca entrarono in campo intere armate la cui esistenza i tedeschi nemmeno sospettavano) che di produttività industriale; e, come parallelo di parte giapponese, l’altrettanto incredibile sottostima sia del potenziale industriale americano che della capacità di combattere dei soldati americani.


D’altra parte non si può certo sostenere che la Seconda guerra mondiale sia stata vinta per gli errori tedeschi o giapponesi; perlomeno per un motivo evidente: gli errori di parte Alleata non furono certamente inferiori a quelli dei loro nemici e, anzi, è molto probabile che, se ci mettessimo a contarli, risulterebbero decisamente superiori. Né si potrebbero chiamare in causa, come decisivi, altri fattori quali, per esempio, la CAPACITA’ ORGANIZZATIVA e LOGISTICA: è vero che lo sbarco in Normandia ebbe successo anche grazie a un immane sforzo organizzativo che riuscì a funzionare complessivamente bene nonostante la quantità e la dimensione dei problemi da risolvere; tuttavia la Germania nazista evidenziava capacità eccellenti proprio in questo campo, come dimostrarono abbondantemente le diverse campagne almeno dei primi 3 anni di guerra, e il Giappone non era da meno.


Ma c’è un altro fattore da prendere in considerazione, un fattore che, a partire dall’inizio della guerra, registrò un costante declino nelle potenze totalitarie e una costante crescita dalla parte degli Alleati: l’EFFICIENZA dei SISTEMI di COMANDO. Questo è l’oggetto che viene discusso qui e lo esporrò separando il caso della Germania (che tratterò per primo) da quello del Giappone, in quanto presentano delle differenze piuttosto importanti. Chiuderò con alcune considerazioni sulla Russia, caso di particolare interesse in quanto nazione schierata in campo Alleato ma governata da una dittatura, sia pure di tipo comunista e non fascista.



Sistemi di comando a confronto: gli inizi


I vertici militari Alleati (qui il riferimento è in particolare alle nazioni occidentali) non erano preparati alla guerra, e l’impreparazione non riguardava soltanto qualità e quantità degli armamenti e numero e addestramento dei soldati; uno dei problemi più grossi, in guerra, è che i capi non si improvvisano, e raramente li si trova pronti. Non è un problema nuovo; tanto per fare un esempio la Guerra civile americana fu caratterizzata, nella sua prima fase, da un forte squilibrio a favore delle forze sudiste, guidate dal famoso generale Lee, mentre i comandanti in capo nordisti cambiarono più volte finché non emerse, e non si impose, la figura del generale Grant il quale, prima di arrivare al comando supremo, dovette dimostrare le sue capacità sul campo, in particolare nella campagna di Vicksburg.


Sembra che la Germania questo lo sapesse bene e partì con un vantaggio immenso, costituito da una classe militare compatta e tecnicamente molto preparata, a tutti i livelli. Questa risorsa straordinaria era stata messa a punto a partire dall’immediato primo dopoguerra, segretamente e, anzi, clandestinamente per non far scoprire le violazioni del trattato di Versailles che vi erano connesse. L’ideatore e artefice principale dell’operazione era stato il generale Hans von Seeckt, che aveva addestrato e selezionato quadri e vertici a tal punto che, quando Hitler denunciò il trattato di Versailles e riprese a riarmare apertamente la Germania, la struttura dell’esercito tedesco era già pronta. E il corpo degli ufficiali era costituito da professionisti di alto livello, capaci di cogliere le opportunità offerte dall’evoluzione tecnologica (il carro armato e l’aereo pensati in modo nuovo, come era accaduto del cannone dopo l’epoca napoleonica
[4]) e di applicarle sul campo.


Questo esercito aveva, però, un limite decisivo a livello dei sistemi di comando, e lo approfondiremo più avanti.


Gli eserciti Alleati (Inghilterra e Francia, innanzitutto, ma poi anche gli USA), invece, erano rimasti fermi alla Prima guerra mondiale: la lezione di quel primo, terribile conflitto generale era che la difesa era superiore all’attacco, e questi apprendimenti i generali francesi e inglesi applicarono nella prima fase del confronto diretto con l’esercito tedesco (la campagna di Francia, nel 1940); ma le nuove tattiche dei mezzi corazzati introdotte dai tedeschi sbaragliarono le obsolete difese Alleate. Il paradosso è che il carro armato, come arma, era stato inventato (durante la Prima guerra mondiale) dagli inglesi, i quali avevano anche scritto dei validi manuali per il suo impiego; ma gli innovatori furono osteggiati dai vertici, attaccati al mito della cavalleria, e i tanks vennero utilizzati senza seguire le indicazioni degli esperti, come supporto ravvicinato della fanteria e disperdendo i mezzi su lunghi fronti di attacco; inoltre tra la Prima e la Seconda guerra mondiale l’arma corazzata fu sviluppata debolmente e tardivamente. I tedeschi, al contrario, i quali avevano letto attentamente i manuali inglesi, impiegarono i mezzi corazzati in modo nuovo, come un’arma autonoma che attaccava in massa per realizzare sfondamenti delle linee nemiche e avanzate a tenaglia, concentrando i mezzi sui punti prescelti dai comandi strategici. Inoltre svilupparono il coordinamento terra-aria e si dimostrarono capaci di utilizzare efficacemente gli aerei come supporto delle forze meccanizzate e corazzate nel corso della battaglia.


Anche strategicamente i vertici Alleati erano rimasti alla Prima guerra mondiale: si aspettavano che la Germania attaccasse di nuovo secondo il “piano Schlieffen”, cioè l’aggiramento della frontiera franco-tedesca (protetta dalla linea Maginot) realizzato violando la neutralità del Belgio. Dunque quando, nel maggio 1940, le armate tedesche invasero sia il Belgio che l’Olanda, il fianco sinistro franco-inglese scattò in avanti per contrastare loro il passo; solo che stavolta era una finta: il generale Manstein, riconosciuto dopo la guerra come il miglior stratega tedesco, era riuscito (non senza lotte, va detto, e solo grazie a un’intuizione di Hitler e a una fortunata combinazione di eventi) a far approvare una sua variante, denominata “Sichelschnittel” (colpo di falce). Così, quando l’ala sinistra Alleata scattò in avanti, l’attacco decisivo fu sferrato in un punto del tutto imprevisto, alla giunzione tra essa e la linea Maginot: i carri armati tedeschi sfondarono in una zona (le Ardenne) che gli avversari erano convinti fosse impraticabile per i mezzi meccanici e, lanciandosi verso nord-ovest e verso il mare (la Manica), non solo distrussero le difese Alleate ma accerchiarono centinaia di migliaia di soldati nella sacca di Dunkerque.


Più avanti, quando l’esercito USA invase il Nord Africa (novembre 1942) impegnandosi nella sue prime battaglie
[5], lo squilibrio rispetto agli avversari risultò evidente; lo ha autorevolmente testimoniato Rick Atkins con la sua opera “Un esercito all’alba”, titolo quanto mai emblematico e appropriato.


Ma gli eserciti Alleati avevano, proprio nei sistemi di comando, un punto di forza che non tardò a dare i suoi frutti, come vedremo più approfonditamente tra poco.



Sistemi di comando a confronto: le condizioni operative


Le forze armate sono, tipicamente, un apparato tecnico soggetto al controllo dell’autorità politica e, in questo, gli eserciti delle potenze dell’Asse non erano diversi da quelli delle potenze Alleate. Va aggiunto, per precisione, che in Giappone la casta militare aveva una fortissima influenza anche sulla politica, con diversi generali di alto grado che sedevano nel governo (anzi, lo dirigevano); tuttavia ciò non invalida il principio che, in ogni caso, i corpi militari si attivano per raggiungere obiettivi che sono decisi “altrove”, che non derivano dalle necessità del campo di battaglia. Comunque, nell’ambito di questa caratteristica comune, era proprio il rapporto fra i militari e il potere politico a mostrare quelle differenze tra gli Alleati e i loro nemici che, alla fine, avrebbero fatto la differenza.


Il caso della Germania è emblematico e di particolare interesse per il confronto; la sua caratteristica chiave è che la scalata di Hitler al potere assoluto aveva avuto pieno successo sia riguardo alla società civile che all’apparato militare. Sul piano politico Hitler, dopo il fallito putsch di Monaco del 1923, aveva cambiato strategia ed era riuscito a svuotare la democrazia tedesca dall’interno, facendosi prima eleggere deputato, poi nominare Cancelliere (1933) e, infine, facendosi assegnare “legalmente”, con un voto del Reichstag, il potere assoluto. Una strategia analoga, ma con differenze molto interessanti, era stata messa in atto nei confronti delle Forze Armate: gli alti vertici usciti dal lavoro di von Seeckt e non graditi ai nazisti furono rimossi montando degli scandali e sostituiti con persone gradite o, comunque, non ostili al regime. Ciò che appare, oggi, quasi incredibile, è l’inerzia del sistema militare tedesco di fronte a questi attacchi, spesso grossolani e sempre inconsistenti; si ha l’impressone del topo incantato dal serpente velenoso che lo sta per mordere. A tutt’oggi (e nonostante i numerosi studi) non sembra possibile stabilire il confine tra quanto il corpo degli ufficiali tedeschi fosse paralizzato dal principio di obbedienza e subalternità alla politica (parte essenziale dell’addestramento ricevuto) e quanto, in fondo, condividesse gli obiettivi del nazismo pur, magari, disprezzandone certi aspetti e molti componenti (la superiorità del popolo tedesco e il desiderio di dominare il mondo sembra fossero sentimenti molto diffusi). Sta di fatto che praticamente nessuno si dimise per protesta da nessuna posizione di alto comando.


Il lavoro di Hitler fu perfezionato quando, basandosi sul potere assoluto che ormai deteneva, assunse il comando anche delle forze armate e divenne il supremo stratega della Germania che si accingeva ad attaccare il mondo. E, infine, fu completato affiancando all’apparato militare tradizionale un corpo totalmente autonomo (le SS) e interamente asservito all’ideologia nazista. Fu così che, al momento della guerra, l’esercito tedesco di ritrovò come una specie di sistema ibrido: le forze operative (a tutti i livelli, dai generali sul campo fino alla truppa) erano tecnicamente eccellenti, capaci non solo di applicare efficacemente le innovazioni ma anche di reagire flessibilmente alle necessità tattiche e di superare gli avversari anche partendo da condizioni di netta inferiorità. Al contrario i vertici strategici
[6] erano totalmente controllati da Hitler, che li forzava alle sue idee o li sostituiva con un semplice atto di volontà, finché la dicotomia logorò l’apparato e portò la Germania alla sconfitta totale sul piano militare e alla rovina come nazione.


Per capire meglio è necessario qualche dettaglio sul meccanismo del comando, su come si manifestava la dicotomia; uno degli aspetti che colpisce di più (oltre alla passività del corpo degli ufficiali tedeschi) è lo stile di comando di Hitler che, in base ai resoconti, appare fondato su un principio che potremmo definire, parafrasando il ’68, “l’immaginazione al potere”. Hitler era convinto che la volontà potesse tutto, che i vincoli materiali fossero, in definitiva, irrilevanti, e insisté in questo suo approccio fino a perdere il contatto con la realtà
[7]; impegnava le sue forze in modo poco rispettoso dell’arte militare e, via via che le cose peggioravano, chiedeva loro compiti sempre più impossibili. Fino agli ultimissimi giorni, come è ben documentato nei materiali d’archivio e come è stato efficacemente descritto anche nel film “La caduta”[8], ha continuato a vaneggiare di armate che non c’erano, di armi segrete che non avrebbero mai potuto essere sviluppate e di controffensive che erano solo esercizi accademici. Paradossalmente furono i primi successi di Hitler condottiero a potenziare l’effetto della sua personalità e a facilitare la catastrofe; in effetti, nella prima fase della guerra, quando l’impreparazione degli Alleati era patente, certe sue mosse azzardate e certe decisioni sul momento non condivise dai militari si dimostrarono efficaci come, per esempio, l’accettazione della variante Manstein al “piano Schlieffen” o la decisione della resistenza a oltranza (contro la difesa elastica proposta dai militari) durante il primo inverno di guerra in Russia. Solo che questo lo rinforzò nella sua idea di fondo (il potere assoluto della volontà) e lo indusse a reiterare certi ordini anche quando le condizioni erano ormai cambiate e questi non potevano produrre gli stessi risultati.


Tutto questo era possibile anche perché il potere assoluto che aveva acquisito gli consentiva di circondarsi delle persone che erano più accomodanti con lui o che gli davano meno ombra; il caso emblematico mi sembra quello delle due figure di Rommel e di Manstein, entrambi comandanti di forze corazzate: Rommel era un grande tattico ma, come ormai anche gli storici sono arrivati a concordare, non uno stratega particolarmente abile, e divenne famoso proprio grazie ai favori di Hitler, i quali derivavano dal fatto che non era percepito come un personaggio minaccioso per il führer. Manstein, invece, era davvero un grande stratega ma fu sempre tenuto sotto stretto controllo da Hitler (nonostante il momento di gloria dell’accettazione del suo piano per la campagna di Francia
[9]) e rimase poco conosciuto quanto Rommel era noto; le cronache di testimoni oculari riportano che il generale Manstein era sempre a disagio di fronte a Hitler.


Non possiamo evitare, a questo punto, un discorso che, pur non essendo centrale rispetto al tema della riflessione, risulta ad essa strettamente associato: le giustificazioni a posteriori dei generali tedeschi, che addossavano a Hitler ogni colpa chiamandosi fuori dagli orrori del nazismo in virtù del principio dell’obbedienza agli ordini, quali che essi siano. Queste giustificazioni sono inaccettabili perché, dal momento in cui si fa parte di un sistema (in particolare quando si occupano i più alti livelli), la passività di fronte alle degenerazioni del sistema stesso rappresentano almeno un grave concorso di colpa. Era logico che un sistema come quello che si stava costruendo in modo così evidente sotto gli occhi degli alti ufficiali tedeschi potesse divenire capace di qualsiasi cosa, e praticamente nessuno dette le dimissioni per scelta quando ancora era possibile dar loro un senso di messaggio, cioè prima della guerra. L’attaccarsi al dovere in senso astratto, il concentrarsi sugli aspetti tecnici del lavoro militare, non sono scusanti valide. Se uno sta in un sistema, lo vede degenerare e non fa niente, è oggettivamente corresponsabile; questo è tanto vero che tutti i comandanti di più alto grado (compreso il grande Manstein) apposero la loro firma agli ordini che autorizzavano esplicitamente ogni brutalità, anche contro i civili e in modo del tutto indiscriminato, come strumento per vincere la guerra (in particolare sul fronte russo, ma non solo) e schiavizzare (non è una metafora) i popoli vinti.


Il risultato finale fu un irrigidirsi delle strategie, una progressiva perdita di coerenza di queste con la situazione reale e un disastro che, da un certo punto in poi, si può dire annunciato: è almeno dalla fine del 1941 che alti personaggi tedeschi (abbiamo già accennato all’osservazione fatta in dicembre dall’ingegner Todt) espressero la convinzione che la guerra fosse perduta.


Nelle forze armate Alleate le cose funzionavano in modo del tutto diverso: il potere politico, innanzitutto, era e rimase collegiale per tutta la guerra, e le decisioni più importanti erano soggette al controllo del parlamento e vagliate in base ai risultati ottenuti; non ci si deve mai dimenticare che l’Inghilterra ebbe un cambio di governo in una fase cruciale del conflitto e che gli Stati Uniti effettuarono regolarmente le elezioni presidenziali nel 1944, con la guerra in pieno corso. In Inghilterra, infatti, dopo la sconfitta sui campi di Francia (estate 1940), il Primo Ministro Chamberlain propose un governo di unità nazionale per fronteggiare la crisi, ma l’opposizione rifiutò di farne parte finché lui ne fosse rimasto a capo e si dichiarò, invece, disponibile a entrare in un governo guidato da Winston Churchill; Chamberlain si dimise. E, negli USA, Roosevelt si dovette guadagnare la rielezione, per continuare a guidare l’America nel conflitto.


In un tale contesto, i militari rispondevano al potere politico in base ai risultati perché l’autonomia dei ruoli era rispettata. Le sostituzioni erano motivate in base a vittorie e sconfitte, a obiettivi raggiunti o mancati, e questo consentì, con il tempo, di far emergere dall’interno delle forze armate quei capi che le avrebbero condotte alla vittoria: sul teatro di operazioni europeo / africano Montgomery, Eisenhower e altri meno famosi ma non per questo meno importanti; sul teatro del Pacifico il gruppo di ammiragli (Nimitz, il comandante in capo, e poi Fletcher, Spruance e Halsey) che prima fermò l’espansione giapponese e poi condusse le forze americane alla vittoria. Il generale Montgomery, per esempio, non era particolarmente famoso prima della guerra, e la sua fama la costruì sul campo, quando fu messo alla guida dell’VIII Armata inglese in Nord Africa, in sostituzione del candidato designato (generale Gott) rimasto accidentalmente ucciso in un incidente aereo; fu con la preparazione attenta e con la magistrale conduzione della seconda battaglia di El Alamein che Montgomery venne riconosciuto come capo. Eisenhower, invece, era un tipo di militare completamente opposto, e fu più volte attaccato dai suoi critici perché non aveva mai guidato una divisione in battaglia; ma, come dicevamo, nel campo delle potenze Alleate il principio della separazione dei ruoli era applicato piuttosto rigorosamente, e si riusciva a distinguere abbastanza bene tra le forze operative, che devono combattere, e gli strateghi, che devono gestire. Gestire, in un sistema basato sul consenso, vuol dire sapersi interfacciare (pur nella distinzione dei ruoli) con la politica, vuol dire tener conto dei delicati equilibri di forze non solo rispetto al nemico, ma anche con gli alleati, che sono alleati ma sono comunque molto attenti a questioni apparentemente (e va sottolineato “apparentemente”) secondarie come la ripartizione dei carichi, l’immagine, la presenza sugli ordini del giorno e sui mezzi di comunicazione. Eisenhower era maestro in questo, ed era un grande organizzatore; le critiche per la sua scarsa esperienza operativa non riuscirono ad ostacolarlo nell’esercizio del suo comando, e la politica lo confermò a capo delle forze che invasero l’Europa continentale nel 1944.


Un caso particolare è quello di Patton, caso anche emblematico del modo in cui le potenze democratiche gestivano il sistema di comando: il generale Patton (anche lui alla guida di forze corazzate) era un militare determinato che conduceva aggressivamente i suoi reparti in battaglia e che si dimostrò capace di ottenere risultati di rilievo, soprattutto quando operava come punta di sfondamento. Nel suo comportamento, però, si rilevavano con una certa frequenza delle punte di esaltazione che lo portavano a gesti inaccettabili; uno dei più noti è, durante la campagna di Sicilia (1943), l’aver tacciato di “vigliacco” e aver preso a schiaffi un soldato ricoverato per una crisi di nervi da combattimento. Grazie alla trasparenza dell’informazione americana l’episodio divenne pubblico e Patton, per quanto non rimosso, fu allontanato dal comando operativo finché non fu ripescato per la campagna di Normandia, dove dette buona prova di sé (in particolare nell’”Operazione Cobra”, cioè lo sfondamento decisivo dopo il consolidamento della testa di sbarco, e nella controffensiva delle Ardenne, dopo i momentanei successi tedeschi); nella parte finale della guerra, e soprattutto nella fase di transizione dopo la fine dei combattimenti, si distinse per gli attriti che riuscì ad innescare con gli alleati russi e, di nuovo, la sua carriera (almeno quella sostanziale) si fermò. Al contrario personaggi meno appariscenti ma dai comportamenti più equilibrati e, nel tempo, più produttivi ed efficaci (come, per esempio, il generale Bradley per la guerra in Europa), salirono senza problemi i gradini del comando.


In altri termini la sostituzione dei comandanti non era legata al gradimento personale di qualcuno (sia pure il comandante in capo) ma all’assolvimento degli incarichi e ai risultati; la meritocrazia, pur con le inevitabili imperfezioni che possiamo immaginare, funzionava. Anzi, funzionò anche troppo, in una prima fase: a un certo punto i vertici dell’esercito americano si accorsero che le sostituzioni troppo frequenti comportavano il problema di impedire ai comandanti di accumulare esperienza, e dovettero risolversi a tollerare alcuni errori, soprattutto nelle fasi iniziali dell’assunzione del comando.


Inoltre, come abbiamo già accennato, la separazione dei ruoli era rispettata, e lo dimostrano, per esempio, i rapporti documentati tra politici e militari in alcune scelte drammatiche che dovettero essere assunte nell’ultimo anno di guerra. Una fu quella del bombardamento delle linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz: grazie alla drammatica fuga di due internati era arrivata in Svizzera, circa a metà del1944, la documentazione su cosa fosse il campo di Auschwitz e la richiesta di ostacolare la deportazione verso lo sterminio attraverso la distruzione delle linee ferroviarie di accesso. Le uniche forze aeree che potevano realmente svolgere quel compito erano quelle inglesi o americane, che potevano decollare dalla Francia liberata o dall’Inghilterra o dall’Italia meridionale (Foggia); ma il percorso era lungo, ai limiti dell’autonomia degli aerei, e il rischio di perdite molto elevato a fronte di risultati che, nonostante l’alto valore morale, sarebbero stati insignificanti sul piano militare; perciò i comandi dell’aviazione si opposero, e i bombardamenti non furono effettuati nonostante le sollecitazioni di Churchill. E la separazione dei ruoli funzionava anche tra alleati: un’altra decisione drammatica fu quella relativa agli aiuti agli insorti di Varsavia (estate 1944), accerchiati dall’esercito tedesco e rifornibili solo per via aerea. Stalin, i cui soldati erano abbastanza vicini alla capitale, aveva deciso cinicamente di abbandonare gli insorti per ipotecare la propria egemonia post-bellica sulla Polonia, e rifiutava non solo di inviare i suoi aerei a rifornire i ribelli, ma anche di far atterrare gli aerei inglesi e americani nei propri aeroporti, relativamente vicini alla città; nonostante l’innalzamento enorme del rischio per gli aviatori inglesi e americani, costretti a fare andata e ritorno senza scalo, Churchill ordinò missioni di rifornimento e arrivò al punto di proporre a Roosevelt di mettere Stalin di fronte al fatto compiuto, inviando gli aerei a far scalo negli aeroporti russi pur senza l’autorizzazione preventiva. Roosevelt si oppose, sulla base del principio che l’obiettivo prioritario era vincere la guerra e che non c’erano le condizioni per rischiare una rottura tra gli Alleati con i combattimenti ancora in corso. Churchill dovette cedere.


Sempre la separazione dei ruoli ebbe una funzione importante come sistema di sicurezza rispetto agli errori nei quali potevano incorrere anche i condottieri di grado più elevato e gli uomini più grandi; per esempio nel settembre 1944 Churchill e Roosevelt, in una delle loro periodiche conferenze, discussero il “Piano Morgenthau”, cioè l’idea di smantellare, dopo la guerra, le zone industrializzate della Germania (la Ruhr e la Saar), di consegnare le relative attrezzature ai sovietici, il cui sistema industriale era stato devastato dall’invasione tedesca, e di trasformare la Germania in un Paese “agricolo e pastorale”. Il commento dei ministri degli esteri inglese e americano (Eden e Cordell Hull), quando vennero informati, fu espresso in termini molto vicini a “demenziale” (si tenga presente che, pur essendo ancora in pieno corso i combattimenti, si profilava già non solo la vittoria ma anche la successiva guerra fredda tra i vincitori) e il Dipartimento di Stato americano bocciò l’idea. Questa non solo non venne attuata, ma non venne neanche più riproposta.





[1] Terrò sullo sfondo il caso della terza potenza dell’Asse, l’Italia, in quanto marginale rispetto al tema qui trattato e connotato da caratteristiche particolari che richiederebbero continue specificazioni.

[2] Per farsene un’idea approssimativa: si arrivò a manipolare al rialzo il corso delle azioni norvegesi alla borsa di Stoccolma per far pensare ai tedeschi che fosse imminente uno sbarco in Norvegia; il risultato di tutte queste manovre (in codice “Operazione Fortitude”) fu che oltre un mese dopo lo sbarco in Normandia i comandi tedeschi continuavano ancora a considerarlo un diversivo e ad attendersi lo sbarco principale nella zona del Passo di Calais.

[3] Anche qui vale la pena di richiamare una vera perla: il più famoso (dopo la guerra) doppiogiochista di Londra, nome in codice “Arabel”, che ebbe un ruolo importante anche nel depistaggio sullo sbarco in Normandia, nel 1944 fu insignito (a distanza) di un’alta onorificenza dell’esercito tedesco (la Croce di guerra).

[4] Negli eserciti dell’epoca napoleonica la tattica dell’artiglieria prevedeva l’uso dei cannoni solo come supporto ravvicinato per la fanteria (e la cosa appare evidente nell’iconografia dell’epoca, che mostra abitualmente i cannoni intervallati nella massa dei fanti sulla linea dello scontro); già nella guerra civile americana (e alcuni lo considerano un fattore che pesò sull’esito del conflitto) l’esercito nordista iniziò a impiegare l’artiglieria come arma autonoma, organizzata in batterie e finalizzata a realizzare concentramenti di fuoco nei punti richiesti dalla strategia della battaglia.

[5] Gli Stati Uniti erano in guerra dal 7 dicembre 1941 (attacco a Pearl Harbor) ma la guerra del Pacifico era condotta dalla Marina, e le truppe di terra erano i Marines (i fanti della Marina, appunto).

[6] Cioè il Quartier Generale, nello specifico l’OKW (Oberkommando des Wehrmacht, cioè il comando supremo di tutte le forze armate) e l’OKH (Oberkommando des Heeres, il comando supremo dell’esercito).

[7] L’ipotesi che mi sembra più condivisibile sul profilo di personalità di Hitler è che il dittatore nazista fosse un narcisista patologico, che non riusciva a gestire il confine tra le sue immaginazioni e aspirazioni e la realtà.

[8] La caduta (Die Untergang) di Oliver Hirschgiebel, Germania 2004. Il film è tratto dall’omonimo libro di Joachim Fest.

[9] Va detto che anche l’apprezzamento per Manstein non era del tutto limpido: da una parte, probabilmente, Hitler vide il potenziale innovativo e di sorpresa del piano Manstein ma, dall’altra, era un suo metodo abituale puntare transitoriamente su generali giovani e innovatori solo per contrapporli alla casta dei generali più anziani e più legati alla tradizione prussiana, cioè usarli strumentalmente per le sue manovre di potere.

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