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(4) IL PILASTRO DELLA DEMOCRAZIA (Prima parte)


IL PILASTRO DELLA DEMOCRAZIA

Riflessioni per un confronto con i critici sociali italiani e tutti i cittadini di buona volontà

(Prima parte)

_____________________

 

L’offesa alla verità sta all’origine della catastrofe.
(Tiresia)

L’Italia non si stanca mai di essere un Paese arretrato.
Fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, pur di rimanere vecchio.

(Vitaliano Brancati)



PREMESSA

Questo scritto si basa sull’esame delle seguenti opere:

· Oliviero BEHA: Italiopoli; Indagine sul calcio.

· Bernardo CAPROTTI: Falce e carrello.

· Pietro ICHINO: I nullafacenti; A cosa serve il sindacato.

· Stefano LIVADIOTTI: L’altra casta.

· Saverio LODATO e Roberto SCARPINATO: Il ritorno del Principe.

· Sergio RIZZO e Gianantonio STELLA: La casta; La deriva.

· Marco TRAVAGLIO (e altri): Mani pulite; Mani sporche; La scomparsa dei fatti; Se li conosci li eviti.


Inoltre tiene conto di numerosi stimoli ricevuti dalla consultazione abituale (ancorché non quotidianamente approfondita) della stampa quotidiana; alcuni riferimenti specifici sono riportati nell’Appendice 1. Un’attenzione particolare è stata dedicata alla Lettera a Gomorra, di Roberto Saviano, pubblicata da la Repubblica del 22 settembre 2008, la cui lettura è stata combinata con la visione del film Gomorra, tratto dall’omonimo libro dello stesso Saviano.

Infine considera, almeno come dati di sfondo (eventuali spunti specifici saranno citati nel testo), gli stimoli provenienti da una serie di trasmissioni televisive “di denuncia”, oppure di quella che viene definita informazione-spettacolo e politica-spettacolo, seguite estemporaneamente nell’arco dell’ultimo anno. Alcuni titoli, che compongono un elenco assolutamente non esaustivo, sono: Report; Ballarò; Matrix; L’Infedele; TV7; Otto e mezzo; In mezz’ora; Porta a porta; Exit. Da citare specificamente la puntata su “Tangentopoli” di Blu Notte – Misteri italiani, trasmessa domenica 7 settembre 2008.

L’espressione critici sociali è una mia traduzione dell’espressione americana social critics che, derivata dalla denominazione della corrente di pensiero social criticism (la quale rimanda alla filosofia marxista classica), indica oggi anche autori e pensatori non necessariamente (o non più) marxisti ma che mettono al centro del loro lavoro l’analisi critica delle società capitaliste nelle loro manifestazioni più recenti. Uno per tutti: Christopher Lasch è indicato come
social critic; ma includerei senz’altro nella denominazione anche giornalisti e attivisti politici come l’americana Barbara Ehrenreich, autrice di una recente inchiesta (svolta con il metodo dell’osservazione partecipante) sulle condizioni di vita della parte povera dei cittadini statunitensi (Ehrenreich, 2002), oppure personaggi come il regista Michael Moore.

Quindi l’espressione “critici sociali” la utilizzo, qui, per indicare collettivamente quell’insieme di autori e di persone di varia estrazione, ma accomunati dal fatto di godere di una certa notorietà, che mostrano di avere a cuore l’Italia e, con il loro lavoro o con le loro prese di posizione, evidenziano, documentano ed esaminano criticamente i molti problemi che oggi affliggono il sistema sociale del Paese. Nel mio elenco ci sono, quindi, almeno molti degli autori citati all’inizio, se non tutti; ma ce ne sono anche molti altri che non ho espressamente indicato, tra i quali autori come Moni Ovadia e Roberto Saviano e alcuni dei comici “di sinistra” che sono particolarmente cari a una parte del pubblico come Maurizio Crozza, Beppe Grillo e Sabina Guzzanti. E questo elenco non è affatto esaustivo, anche perché i critici sociali più importanti, per i destini del Paese, credo siano quei cittadini di buona volontà che ho ricordato nel sottotitolo, quelli che lavorano come fanno (quasi) tutti, quelli che affrontano le difficoltà quotidiane del vivere come fanno (quasi) tutti, quelli che votano come tutti ma che, certamente NON come tutti (anche se non sappiamo bene come quanti), hanno a cuore il Paese e insistono nell’usare autonomamente la propria testa.

La collocazione online di questo scritto è stata accompagnata da una comunicazione diretta (e-mail inviata agli indirizzi reperiti online, sui blog personali) ad alcuni degli autori sopra ricordati e ad alcuni altri personaggi, scelti con un criterio del tutto soggettivo e basato essenzialmente sulla rilevanza che la lettura dei loro lavori aveva avuto per l’elaborazione di questo testo. La scelta, quindi, non implica alcun giudizio di valore, né assoluto né relativo, e resta riservata; poiché può contribuire a delineare con ancora maggiore chiarezza il quadro che sto per tracciare, come documentazione è riportato, nell’Appendice 2, il messaggio standard inviato a questi soggetti (ci sono state delle piccole personalizzazioni, nei messaggi reali inviati ai singoli autori, ma nessuna di esse ha minimamente alterato il contenuto comune).


1 * Il paradosso italiano

I materiali indicati in Premessa, considerati in una visione complessiva, si integrano nel delineare un quadro complesso ma sufficientemente chiaro e completo della situazione attuale dell’Italia; il quadro, in estrema sintesi, è quello di una nazione in declino, tormentata da una crisi istituzionale, affetta da numerose fragilità strutturali, in affanno in tutti i confronti internazionali, eticamente debole e incapace, fino ad oggi, di trovare in se stessa la forza di superare la difficile fase. Essi forniscono anche una serie di spunti specifici (per esempio le ipotesi di soluzione dei problemi, per la gestione delle ASL come per il funzionamento dei sindacati) sui quali sarebbe molto interessante approfondire ulteriormente la riflessione; tuttavia si tratta di aspetti, appunto, specifici, di questioni tecniche la cui elaborazione aggiungerebbe poco al quadro complessivo, che è l’oggetto centrale di questo scritto. L’aspetto più rilevante che emerge dall’insieme dei materiali è, piuttosto, un gigantesco paradosso che riguarda l’Italia come nazione e che non trova una compiuta spiegazione al loro interno; il paradosso, detto in due parole, è che il Paese è travagliato (dominato, direi) da scandali di ogni tipo dei quali si sa tutto ma, a fronte di questo, NON SUCCEDE NIENTE. Sembra impossibile, eppure è così.

L’esistenza di questo paradosso è chiara anche a molti degli autori, che ripetutamente propongono la domanda: “Ma come è possibile?”. Per esempio nell’articolo di Incerti sullo spettacolo di Crozza alla Festa del PD di Firenze (la Repubblica, 28 agosto 2008), il comico riconosce come maestro assoluto suo padre, che “si indignava, si poneva sempre una domanda fondamentale: ma come è possibile? … Come è possibile che ci siano dei condannati in Parlamento? Come è possibile che non esista una informazione libera? …”. E’ una domanda importante, perché l’attesa almeno di una parte della società è che, a fronte della dimostrata (e resa nota al pubblico) esistenza di comportamenti illegali clamorosi, si verifichino delle conseguenze, sui responsabili e sul sistema delle regole che ha lasciato spazi per il suo verificarsi. Invece in Italia questo non sta succedendo e, anzi, si assiste in modo assolutamente chiaro a un rovesciamento dei ruoli e del percorso: la dimostrata esistenza di scandali non solo non porta conseguenze ai responsabili ma questi, in gran numero eletti al Parlamento, sono in grado di mettere le mani sul sistema delle regole non nel senso di renderle più funzionanti ma, al contrario, di svuotarle di qualunque efficacia. Ma come è possibile? Un passo di Giolitti[1] ci conferma autorevolmente che il problema è tutt’altro che nuovo, ma questo non solo non ci consola, ma rende ancora più acuta la necessità di rispondere alla domanda.

Come è possibile che, negli Stati Uniti, i manager della Enron abbiano avuto rapidamente condanne intorno ai 20 anni o addirittura maggiori mentre i nostri bancarottieri e i nostri corrotti sono sostanzialmente a piede libero o addirittura attivi in politica? Come è possibile che le istituzioni pubbliche di altre nazioni democratiche intervengano tempestivamente su regole poco efficaci, per alzare i livelli di salvaguardia, mentre da noi si succedono governi che o trascurano di aggiornare le regole (il centrosinistra e il conflitto di interessi, per esempio) o le manomettono intenzionalmente (il centrodestra sulla giustizia, per esempio)? Come è possibile che l’Italia sia l’unico Paese liberaldemocratico industrializzato che ha livelli di corruzione paragonabili a quelli dei Paesi del terzo mondo[2]?

Le spiegazioni proposte nei materiali che ho esaminato sono senz’altro sensate e condivisibili, nel loro specifico, ma appaiono parziali, non riescono a dare pienamente conto di una specie di fenomeno gigantesco di rimozione, di rifiuto della realtà, di intenzionale cecità che ha dell’incredibile. Le spiegazioni più recenti e più condivise sembrano le seguenti:

· La mancanza di un’opinione pubblica (Moretti, per primo, poi anche Scalfari e De Rita, oltre ad altri che qui non sono registrati).

· Il monopolio privato dei mezzi di comunicazione di massa e l’allineamento di tutti i segnali agli interessi di Silvio Berlusconi e dei suoi governi (un po’ tutti, da Travaglio a Stella e Rizzo a Beha e ai social critics italiani in generale).

· L’inefficienza dell’Amministrazione Pubblica, che sfianca i cittadini e li demotiva, oltre ad avvelenare il rapporto tra loro e lo Stato. E in questa inefficienza generale si distingue come particolare l’arretratezza del sistema dell’istruzione, che appare ormai chiaramente incapace di formare non solo una classe dirigente degna di questo nome, ma anche dei cittadini minimamente consapevoli.

· La corruzione dilagante, che guasta l’economia del sistema-Italia e alimenta una spirale perversa di comportamenti illegali screditando ulteriormente le istituzioni agli occhi dei cittadini.

· Il paternalismo della politica (non solo quella di centrodestra), che fa leva sulle spinte più viscerali della popolazione per perseguire i propri disegni di interessi materiali e di potere.


L’elenco sarebbe tutt’altro che finito, ma penso che questi cinque punti costituiscano una base sufficiente; e, per quanto mi riguarda, sono anche tutti pienamente condivisibili. Solo che non mi sembrano sufficienti, in se stessi (ma nemmeno considerati tutti insieme), a spiegare quel come è stato possibile dal quale sono partito. Manca qualcosa, e ognuna di quelle spiegazioni può essere controbattuta; provo a esemplificare con una carrellata, senza approfondire troppo:

· L’opinione pubblica assente può essere una questione di punti di vista: forse sembra che manchi solo perché non si esprime nel modo che una certa parte della popolazione si attenderebbe. Per esempio con il voto: alle elezioni italiane non presenziano gli osservatori dell’ONU, non risultano brogli di un qualche significato, non scattano apparati di coercizione della libera espressione del voto. Non risulta nemmeno che siano compromesse la libertà di associazione e di iniziativa politica, né la partecipazione alla vita delle organizzazioni politiche. Dunque? L’opinione pubblica è oppressa o sceglie di rapportarsi in un certo modo agli strumenti della vita democratica dei quali dispone?

· Il monopolio privato dei mass-media è un fatto recente, nella storia italiana; è questo specifico evento che ha determinato, per esempio, la scomparsa dei fatti (Travaglio, 2006) dagli articoli dei giornalisti italiani? O il fiutare l’aria e piegarsi al vento del momento è un’antica abitudine degli operatori dell’informazione in Italia? E prima di questo evento gli italiani leggevano di più, erano più presenti nella vita civile del Paese? Gli italiani sono deprivati forzatamente di un sistema efficiente di informazione o sono indifferenti? Sono due scenari completamente diversi. Fu un giornalista tedesco (guarda caso straniero!) a evidenziare, nel corso di un’intervista alla TV italiana, che molti giornalisti stranieri si sarebbero aspettati, se non rivolte popolari, almeno una reazione forte da parte della categoria dei giornalisti al “decreto bulgaro” con il quale Berlusconi, allora capo del governo, estromise Biagi e Santoro dalla RAI; perché la posta in gioco non era la qualità intrinseca delle loro trasmissioni, ma il PRINCIPIO della libertà di espressione e il rifiuto della censura preventiva che dovrebbe stare a fondamento di qualunque sistema democratico. Ma questa reazione non ci fu.

· L’inefficienza dell’Amministrazione Pubblica è una vera piaga; tuttavia sarebbe difficile sostenere che TUTTI i cittadini italiani avrebbero interesse a rendere il servizio pubblico completamente efficiente. Infatti è chiaro che una Pubblica Amministrazione efficiente implicherebbe snellimento istituzionale (con conseguente perdita di posti di lavoro, per quanto socialmente ammortizzata), miglioramento organizzativo (per esempio con l’introduzione di sistemi oggettivi di valutazione e responsabilità diretta rispetto ai risultati), periodiche riorganizzazioni per adattare la “macchina” pubblica alla realtà che evolve. Siamo sicuri che tutti gli italiani vogliano questo? Siamo sicuri che chiedano una scuola che prepari davvero cittadini consapevoli in vista di sfide future? Insomma: la massa degli italiani subisce l’inefficienza della PA o ci si adatta e cerca di cavalcarla? Anche questi sono due scenari completamente diversi, e i segni rilevabili nel contesto sociale non indicano inequivocabilmente la validità del primo.

· La corruzione dilagante è un altro ceppo che tiene incatenate risorse materiali e spirituali del Paese, ma a questo handicap fu dato un colpo che era sembrato mortale, negli Anni ’90, con gli eventi legati alla scoperta di Tangentopoli e con la reazione della Magistratura, particolarmente efficace all’epoca (la stagione di Mani Pulite). Fa impressione, oggi, rivedere in TV le scene delle manifestazioni di tanti italiani contro Craxi, contro i politici corrotti e a favore del pool Mani Pulite; eppure questa spinta si è persa, molti indagati sono in Parlamento e molti fanatici sostenitori del pool hanno voltato gabbana e ora si scagliano contro il “giustizialismo”. Cosa è successo? Dove sono finiti quelli che erano scesi in piazza? L’ex-magistrato di Mani Pulite Gherardo Colombo ha avanzato un’ipotesi inquietante, che andrebbe almeno verificata perché delinea uno scenario completamente diverso da quello del popolo italiano oppresso dal sistema della corruzione: nella sua apparizione alla trasmissione TV su Tangentopoli (Blu Notte del 7-9-2008) ha richiamato, come sua percezione del punto di svolta, il momento nel quale le indagini cominciarono a scendere la scala gerarchica di corrotti e corruttori, e il grande pubblico cominciò a rendersi conto che la questione poteva non riguardare più soltanto i grandi personaggi della politica e dell’economia, ma anche il commercialista della porta accanto, qualche parente, degli amici. E’ solo un’ipotesi basata su un’esperienza personale, per quanto vicina al centro degli eventi e in una posizione di tutto rilievo; però è bene tenerne attentamente conto, perché rimane comunque da spiegare l’esaurirsi della spinta moralizzatrice presso il pubblico; tra l’altro, come vedremo più avanti, Roberto Scarpinato avanza un’ipotesi molto simile, anche se su un altro fronte. Di nuovo gli scenari possibili sono due: gli italiani sono solo vittime della corruzione dilagante o la tollerano, almeno a livello “locale”, e quando si presenta l’occasione la usano?

· Il paternalismo della politica italiana (totalmente bipartisan, per quello che è dato vedere) credo si possa considerare un fatto; tuttavia non possiamo evitare di tener presente che i rapporti si fanno sempre in due: se c’è un politico paternalista che viene eletto liberamente, non c’è dubbio che ci sono degli elettori che accettano il ruolo di subalterni, se non di sudditi tout-court. Ciò, ovviamente, non giustifica questi politici: manipolare le debolezze della popolazione per scopi di potere è non solo ignobile, ma implica l’abdicazione al ruolo del politico; infatti il senso profondo di questo ruolo non consiste nell’appiattirsi sull’esistente per lucrarne vantaggi personali, bensì nello sviluppare una comprensione profonda del sistema collettivo e, per quanto da posizioni di parte (che dovrebbero essere esplicite, naturalmente), portare avanti, cercando di aggregare consensi intorno ad essa, un’idea di Stato, di Nazione e di governo pensata in funzione degli interessi della collettività. Tuttavia, pur non giustificando questi politici, è indispensabile interrogarsi sui cittadini e sulla loro posizione perché, a seconda della risposta che diamo, gli scenari sono diversi: per usare una metafora che dovrebbe essere cara agli italiani, il Gatto e la Volpe sono dei criminali, ma Pinocchio, prima di farsi imbrogliare, ha rifiutato intenzionalmente tutti gli avvertimenti che gli erano stati dati per la prospettiva di un grosso vantaggio personale. Fuor di metafora: l’abdicazione alla funzione di servizio del potere è un atto di oppressione nei confronti degli italiani oppure è la controparte di un tacito scambio, dal quale gli italiani (non tutti, ma forse la maggioranza di essi) pensano di poter trarre vantaggio?


Capire il perché è fondamentale e, se ci fermiamo qui, il perché non appare chiaro; eppure il paradosso è evidente: il fatto che si sappia tutto e non succeda niente è qualcosa di davvero colossale, di apparentemente inspiegabile, perché è difficile mandare giù l’idea che tutto quanto di marcio stiamo osservando si sia potuto verificare SOTTO IL NASO di oltre 43 milioni di elettori in un paese le cui STRUTTURE democratiche potrebbero funzionare perfettamente (tanto è vero che, per poterle manipolare e fare i propri comodi, le devono manomettere). Quando il pensiero arriva a un vicolo cieco rimane solo una strada: bisogna rivedere il metodo, cioè verificare l’approccio, il campo di indagine e l’impostazione del problema; perché quando i fatti e le interpretazioni fanno a pugni, sono le interpretazioni a dover essere modificate.


2 * Perché non si capisce il perché?

Rivedere il metodo significa andare a vedere che tipo di analisi è stata fatta; la comparazione dei materiali che ho esaminato porta a concludere che una caratteristica fondamentale delle analisi citate sembra essere la settorialità: vengono analizzati singoli settori della società e si cercano le conclusioni a livello di settore, per cui viene a mancare, alla fine, una spiegazione accettabile a livello di SISTEMA. Va aggiunto che, in questo quadro abbastanza uniforme, si registra almeno un’eccezione, rappresentata dal libro-intervista di Lodato e Scarpinato, che imposta la questione in termini differenti e cerca una spiegazione sistemica (oltretutto con risultati notevoli, secondo me); tuttavia anche in esso la spiegazione a livello di sistema rimane parziale per motivi che non affronto qui in quanto avranno uno spazio specifico più avanti.

Per dare un’idea più precisa di cosa intendo per “analisi settoriale” si consideri questo sommario elenco:

· Il mondo dell’informazione, la professionalità dei giornalisti e l’interpretazione del ruolo diffusa tra loro sono uno dei centri principali della riflessione di Travaglio e dei suoi colleghi coautori (che esaminano a fondo, naturalmente, anche la questione del monopolio dei mezzi di comunicazione di massa).

· La questione dei centri di potere economico della sinistra e dei loro legami con le amministrazioni pubbliche di sinistra appare affrontata di petto soprattutto nel lavoro semi-autobiografico di Caprotti.

· Il mondo della politica e la sua progressiva degenerazione verso il totale abbandono della funzione di servizio del potere sono trattati soprattutto da Stella e Rizzo, da una parte, e da Oliviero Beha dall’altra; di quest’ultimo appare particolarmente interessante l’approfondimento sulla sostanziale omogeneità degli apparati e dei comportamenti nei due schieramenti (apparentemente) contrapposti, sintetizzata efficacemente nella metafora del residence proposta per sostituire quella pasoliniana del palazzo del potere, ormai superata dagli eventi[3].

· Il mondo del sindacato è affrontato, con tagli diversi ma entrambi interessanti, da Livadiotti (la cronaca e l’immagine della degenerazione della rappresentanza dei lavoratori in centro di potere) e da Ichino (l’analisi scientifica dell’azione del sindacato come forza sociale, i difetti tecnici della sua gestione e le possibili soluzioni).


Da un punto di vista settoriale le informazioni fornite sono ampie, univoche, utilissime, come sono ineccepibili le conclusioni sui guasti prodotti da un’informazione servile, dal monopolio dei mass-media, da politici inqualificabili e da un apparato economico-sociale con vaste sacche di parassitismo e autoritarismo al suo interno. Ma dal punto di vista del sistema-Italia le spiegazioni appaiono incomplete, non affrontano le possibili obiezioni elencate poco fa e non forniscono elementi sufficienti per dissolverle.

Dunque? Dunque le analisi sono valide ma, poiché non sono portate sul sistema, bensì sulle sue singole parti, spiegano le parti ma non riescono a dare ragione del sistema, del come è stato possibile che tutto questo accadesse.


3 * Il grande assente

Forse è proprio l’impostazione settoriale che fa da base a un’altra caratteristica fondamentale dei diversi lavori esaminati: l’assenza del popolo italiano come SOGGETTO ATTIVO della vita politica, economica e sociale della nazione. Intendiamoci, non è che del popolo italiano non si parli perché, anzi, esso viene continuamente citato e chiamato in causa; però non se ne parla, appunto, come soggetto della vita della nazione, ma piuttosto come vittima, come parte lesa, come massa sostanzialmente informe e impossibilitata a incidere sugli eventi; nel complesso il popolo italiano, in questi lavori, è trattato come un OGGETTO PASSIVO di decisioni prese altrove, di manovre fatte a mansalva dalle stanze del potere (politico o criminale che sia), di messaggi lanciati da pericolose sirene mediatiche o di processi storici e sociali esterni, ovvero del tutto autonomi e capaci di determinare univocamente le reazioni del popolo. In altri termini gli italiani, nel loro insieme, vengono rappresentati come un reattore passivo governato pressoché totalmente da input esterni.

L’idea implicita (che mi sembra inespressa nelle opere esaminate, ma che è una logica conseguenza dell’approccio metodologico adottato) è che, per governare le masse, il segreto starebbe nell’individuare l’input giusto per produrre effetti virtuosi anziché viziosi, data la presunta passività intrinseca delle masse stesse; oppure si dovrebbe disporre di una classe dirigente virtuosa a priori che si occupasse innanzitutto del bene della massa stessa. E’ proprio questa idea che va riesaminata, perché potrebbe essere l’ostacolo fondamentale che ci impedisce, a partire dall’articolazione settoriale, di vedere il sistema complessivo formato dai settori; bisogna porsi il dubbio se, in generale, il considerare i cittadini di una potenza democratica moderna[4] come una massa inerte da attivare dall’esterno sia davvero coerente con l’esperienza storica e, nello specifico, chiedersi se le caratteristiche effettive del popolo italiano rispecchiano questa idea implicita o la contraddicono. Ovvero, riconducendo la questione alle sue radici, bisogna porsi innanzitutto una domanda fondamentale, e cioè se abbia senso parlare di un’entità collettiva (dal piccolo gruppo al grande gruppo alla folla alla massa) come soggetto perché, se questo risultasse impossibile, sarebbe impossibile anche tentare un’interpretazione efficace del sistema-Italia in una prospettiva che includa il popolo italiano come sua componente. Su questo punto è necessario fermarsi, sia pure brevemente, perché alcuni lavori storici recenti contengono contributi nuovi e possono aiutarci a trovare la risposta.

La questione dei comportamenti di massa è intrinsecamente difficile e, come dicevo, è dubbio se sia legittimo affrontarla teoricamente e possibile studiarla efficacemente. Rispetto alle tre principali scienze di riferimento, per questo tipo di studi, troviamo che: la psicologia ha focalizzato essenzialmente i comportamenti individuali (compiendo notevoli passi avanti nella loro comprensione, con il fiorire di una varietà di modelli e di scuole) ma il collegamento tra la dimensione individuale e quella collettiva della vita sociale non è ancora spiegato in modo soddisfacente (in sintesi: la massa non sembra poter essere ridotta a una somma di individui); la biologia (in particolare la neurobiologia) ha rivelato alcune fondamentali connessioni tra il comportamento osservabile a livello individuale e una serie di processi fisiologici ma non è ancora riuscita a collegare in una sintesi chiara i due livelli (in sintesi: il comportamento umano osservabile non sembra poter essere ridotto ai processi neurofisiologici sottostanti); la sociologia ci restituisce letture a posteriori di eventi e processi che coinvolgono masse di persone, tipicamente su base statistica, delineando anche immagini efficaci ed evocative[5], ma per farlo rimane necessariamente ancorata agli individui (per fare le statistiche si contano le caratteristiche o i comportamenti individuali, appunto) e poco ci dice della massa come soggetto indagabile, portatore di “comportamenti” che si possano ad essa effettivamente attribuire e che possano essere studiati come comportamenti “di massa” (in sintesi: la lettura a posteriori dei risultati di processi di massa non ci consente di ricostruire quei processi).

A livello della storia, poi, si pone il problema della “responsabilità di massa”, tema diventato particolarmente caldo nel secolo scorso, quando l’umanità si trovò di fronte al fenomeno dei crimini di massa, cioè il genocidio e, in particolare, l’Olocausto; la domanda che si pose fu: può un popolo essere considerato colpevole? In realtà non era la prima volta che si poneva, a partire dalla colpevolizzazione degli Ebrei in quanto “uccisori di Cristo” operata in tempi lontani dal Cristianesimo; dati i tempi più evoluti, la risposta condivisa fu quella logica e giusta, e cioè che la responsabilità può essere solo individuale, e che nessun popolo può essere chiamato a rispondere, nella sua interezza, di crimini commessi da appartenenti ad esso, anche se in numero largamente maggioritario. Sarebbe superfluo, qui, sviluppare ulteriormente il discorso, basti ricordare che anche sotto la dittatura nazista, in Germania, tedeschi oppositori del regime non mancarono (si veda per esempio Fest, 2007) e che, non ci fosse altro, già questo rende impossibile fare di ogni erba un fascio. Ma ciò non chiude la questione; fermo restando che la responsabilità può essere solo individuale, è comunque possibile studiare e comprendere i comportamenti di una massa considerata nel suo insieme? E’ su questo che opere recenti hanno fatto chiarezza e hanno posto le basi per compiere passi avanti significativi; faccio riferimento in particolare a due di esse, e cioè il lavoro di Goldhagen sulle radici dell’Olocausto (Goldhagen, 1997) e quello di Catherine Merridale sull’Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale (Merridale, 2007).

Goldhagen ha anticipato nel titolo la sua tesi: I volenterosi carnefici di Hitler. Sulla base di un impianto metodologico ferreo[6] l’autore chiarisce come, a livello della comprensione storica, sia possibile concludere che l’Olocausto non sarebbe mai stato possibile senza l’attivo contributo del popolo tedesco (inteso come soggetto collettivo nel senso sopra specificato) nel periodo della dittatura nazista; non entro nei dettagli e mi limito ad accennare alle sue considerazioni sulla fenomenologia del massacro, che illuminano mentre agghiacciano, e sul come la trasformazione dell’assoluta eccezionalità dell’evento in (almeno) semi-normalità sarebbe stata impossibile senza un concorso attivo della massa. Ciò implica che, in questi termini e fatte salve le considerazioni già premesse sulle responsabilità, sul piano della comprensione storica è possibile esprimersi nei termini di comportamento collettivo. Non bisogna dimenticarsi che, in quel caso, una parte importante del lavoro sporco, soprattutto sul fronte orientale, fu eseguito da reparti di polizia, forze territoriali, gente normale a tutti gli effetti, e che è documentato il caso di un capitano di un reparto (quindi un ufficiale subalterno, che operava a diretto contatto con i suoi uomini, non un mostro insensibile estraniato agli alti livelli del comando) che passò il suo viaggio di nozze nel massacro di innocenti.

La Merridale (il suo libro si intitola I soldati di Stalin, in originale Ivan’s war) ha affrontato il tema meno di petto ma, per gli aspetti che ci interessano, ha presentato risultati che portano alle stesse conclusioni; il suo scenario è il fronte russo, nella Seconda guerra mondiale, e il punto di vista che ha assunto è quello del semplice soldato, “Ivan”[7]. Ricostruendo la fenomenologia della vita al fronte, vedendo la guerra di Russia attraverso gli occhi di Ivan, anche lei arriva a porsi una domanda cruciale: come è stato possibile che lo sgangherato apparato militare sovietico del 1941 reggesse l’impatto tremendo della macchina da guerra nazista e si rivelasse, alla fine, in grado prima di arrestarla e poi di annientarla? Anche qui salto i dettagli, e sicuramente la motivazione “scientifica” del fatto storico è complessa; ma una conclusione dell’autrice è di grande interesse: una componente fondamentale della spiegazione è la scelta che la massa dei coscritti russi fece, attraverso un percorso mentale e spirituale tortuoso e travagliato, di schierarsi per la difesa della propria terra. La cosa è molto meno semplice e banale di come sembra: l’allora Unione Sovietica era un Paese enorme, composito e con legami allentati, devastato non solo dalla brutalità della dittatura staliniana, ma anche dalle catastrofiche inefficienze che la accompagnavano; in effetti gli ufficiali al fronte, quando ricevevano i contingenti di nuovi coscritti, non erano affatto certi (soprattutto se questi provenivano dalle repubbliche asiatiche) della direzione nella quale questi avrebbero sparato. Eppure, alla fine, i colpi si diressero contro il nemico, e non fu certo soltanto la paura della repressione a orientare i comportamenti della massa, né soltanto la propaganda (che, tra l’altro, impiegò molto tempo per trovare un linguaggio veramente efficace); è vero che un contributo importante lo dettero i nazisti stessi, che con la loro inenarrabile e cieca violenza soffocarono sul nascere ogni possibilità di collaborazione con le popolazioni occupate, ma la componente di scelta rimane essenziale.

Mi rendo conto che i lavori sono recenti, e gli spunti che da essi ho tratto, come l’estensione di concetti che sto per proporre al caso qui in esame, sono opera mia, quindi non è detto che sarebbero condivisi dagli autori. Tuttavia mi pare che abbia senso provare a sviluppare la riflessione in questa direzione perché altrimenti le società di massa non si capiscono, mentre abbiamo un gran bisogno di capirle per affrontare le molteplici crisi in atto simultaneamente su questo pianeta; se la direzione si rivelerà sterile ci avrà almeno aiutato a escludere un’opzione e a concentrarci su altre. Posso aggiungere, su questo specifico punto della possibilità di trattare entità collettive come soggetti a pieno titolo, che ho avuto modo (prima da solo, poi con alcuni colleghi) di produrre alcuni lavori specifici di ricerca, su basi statistiche e a livello di piccoli gruppi, che confermano con dati quantitativi l’esistenza di comportamenti di gruppo, cioè di fenomeni osservabili e misurabili che assumono significato solo in riferimento all’entità collettiva, non ai singoli componenti[8].

Da tutto questo si può concludere, dunque, che è possibile, almeno in termini di ipotesi di lavoro, considerare la massa come soggetto, e senza che ciò implichi un giudizio uniforme sui singoli appartenenti ad essa (questi saranno sempre e comunque individualmente DIVERSI, assolutamente non comprimibili in un qualche stereotipo). Quindi è possibile, nel caso specifico che questo scritto affronta, porsi il problema del ruolo del popolo italiano nel declino che caratterizza la nazione in questa fase storica; solo così è possibile passare davvero da una visione settoriale a una sistemica, perché il sistema-nazione senza il popolo non esiste.


4 * Alla ricerca dei perché

La ricerca dei perché passa, dunque, da un esame razionale del popolo italiano come soggetto e di quelli che potremo identificare come suoi comportamenti. Mentre raccoglievo materiale per questo paragrafo ho incrociato il libro di Lodato e Scarpinato, che mi ha fornito un aiuto decisivo; è un’opera così importante, secondo me, che merita una breve descrizione.

Saverio Lodato è un giornalista e scrittore che ha lavorato a lungo in Sicilia e ha pubblicato molto sulla mafia; Roberto Scarpinato è procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo e si occupa specificamente di criminalità mafiosa ed economica. Il titolo del libro è Il ritorno del Principe, e intende sintetizzare la tesi fondamentale sviluppata dagli autori: nella storia italiana, almeno a partire dal Rinascimento (Machiavelli, appunto, ma ci sono accenni a radici ancora più remote), c’è un granitico elemento di continuità costituito da un certo modo di gestire il potere; questo modo è caratterizzato dal rapporto tra classi dirigenti e violenza, rapporto non ancora “risolto” nel senso che, in Italia, l’apparato di potere non ha realizzato la transizione dalla fase violenta delle origini del capitalismo alla fase matura, nella quale le divergenze di interessi e i conflitti tra le diverse componenti della società sono mediati dai processi delle istituzioni democratiche. In Italia la scissione tra la rappresentazione scenica del potere (quella che appare all’esterno, sui mass-media e nelle situazioni pubbliche) e la gestione reale nel “fuori scena”[9] è in pieno vigore, e i processi del potere reale sopravanzano, umiliano e, alla fine annientano le salvaguardie dell’apparato istituzionale formale. La specificità italiana è mirabilmente sintetizzata in questo passo:


Mentre negli altri Paesi europei la criminalità non “fa storia”, riguardando solo le fasce meno integrate e acculturate della società, in Italia la storia nazionale, quella con la S maiuscola, è inestricabilmente intrecciata con quella della criminalità di settori significativi della sua classe dirigente, tanto che in taluni tornanti essenziali non è dato comprendere l’evoluzione dell’una senza comprendere i nessi con la seconda.[10]


I passi che trattano della mafia[11] come sistema di potere che viene dall’alto, dalle classi agiate, distinguendo le menti dalla manovalanza militare, e quelli che ricollegano la storia dell’Italia unita a questo sistema di potere, sviluppano veramente una visione nuova (almeno nella sua sinteticità e sistemicità) e, finalmente, chiaramente intelligibile. La conclusione è che il Paese non è cresciuto, non è mai arrivato allo stato pieno di potenza moderna, perché la sua classe dirigente è rimasta pre-moderna; quindi adesso, di fronte alle sfide di un mondo complesso e globalizzato, è in affanno e poco attrezzato, capace solo di rinforzare i propri limiti regredendo verso una condizione di agglomerato di “tribù” di potere diverse, spaccandosi letteralmente in due (la forbice Nord-Sud aumenta vertiginosamente) e guardando al suo passato invece che al futuro. Questo libro è un libro importante perché riempie un vuoto cruciale: dà finalmente ragione, con l’ampiezza e la ricchezza di argomentazioni solidissime e proiettate su un arco temporale di secoli, da un lato della funzione storica e della funzionalità dei sistemi democratici, dall’altro della particolarità italiana, sia in generale che rispetto ai momenti altamente critici che la Nazione sta attraversando. E lo fa senza ideologismi, senza fronzoli, senza illusioni, ma con un radicamento potente nei fatti, con una visione complessiva degli eventi storici e sociali e con un realismo, direi, liberatorio, rispetto alla scadentissima qualità del dibattito che oggi caratterizza tutti i mass-media. Questo libro può cambiarti la visione delle cose, se lo leggi con attenzione e con un minimo di passione civile; questo libro renderebbe necessaria la riscrittura di alcuni libri di storia.

Se, ora, provo a fare una sintesi sugli aspetti selezionabili dal libro e che più riguardano questo scritto, ne esce la seguente articolazione (la sintesi è mia):

1) I sistemi democratici di tipo liberale[12] non si sono affermati, nella storia, perché sono “più buoni” (più etici) ma perché, oltre a questo (per me sono anche più buoni, ma questo vale poco sul piano della storia), sono più efficaci, perché sono stati, fino ad oggi, gli unici che si sono dimostrati veramente all’altezza della sfida di gestire società caratterizzate dalle dimensioni di massa e dalla incommensurabile complessità dello stato attuale dell’evoluzione umana. Come chiosa del tutto mia aggiungo che mi sembra proprio questa una delle lezioni da trarre dalla Seconda guerra mondiale: le democrazie di massa annientarono militarmente le potenze totalitarie, dimostrando di essere superiori anche sul piano del confronto fisico[13].

2) Per quanto riguarda la nostra nazione è improprio dire che l’Italia non funziona, piuttosto bisogna partire dal presupposto che l’Italia “funziona in un certo modo”, e il modo è quello che viene accuratamente descritto nel libro e che ho sommariamente delineato poco sopra.

3) Questa riformulazione del problema ha delle conseguenze importanti perché, a cascata, ci può portare a rimettere in discussione tutta una serie di formulazioni che, finora, hanno ostacolato la ricerca di interpretazioni efficaci. Per esempio: non è che manca un’opinione pubblica in Italia, è che in Italia c’è una certa opinione pubblica; e via dicendo.


Secondo me il quadro delineato è fondato e pienamente condivisibile; eppure, alla fine di tutto, mi manca ancora qualcosa: mi manca il popolo italiano come soggetto compartecipe degli eventi che lo hanno coinvolto. Alla fine l’impressione è che, anche in questa grande opera, il popolo italiano rimanga sullo sfondo, indistinto, condannato alla sudditanza e alla passività da circostanze esterne, per lui imperscrutabili e non influenzabili. L’impressione rimane anche considerando alcuni passi della terza parte del libro che in parte potrebbero contraddire questa osservazione; per esempio la ripresa delle osservazioni di Sciascia sulla natura pre-politica, culturale del problema della mafia (pag. 252) e l’illuminante sintesi di un’esperienza personale di Scarpinato (pagg. 301-302):


La mattina seguente all’arresto per mafia di un notabile cittadino, al Palazzo di giustizia fui fermato da una persona sino ad allora entusiasta sostenitrice dell’azione della Procura. Mi si avvicinò agitando le mani giunte e mi disse: “Ma che state facendo, vi siete impazziti… Voi non potete trattare Ciccio [nome del notabile] allo stesso modo dei viddani [quelli della mafia militare]. Qualunque cosa Ciccio abbia fatto… resta comunque uno di noi”.


Alla fine mi manca un riferimento diretto alla volontà e alla scelta delle persone, perché anche in questi passi i comportamenti descritti appaiono come se fossero determinati da fattori esterni. Se provo ad esprimere in termini più formali ciò che non mi torna, direi che è l’estensione del discorso della continuità storica italiana dalle classi dirigenti alla popolazione tutta: la continuità del potere italiano, sintetizzata nella formula della sua stabilizzazione su una concezione e condizione pre-moderna, la darei per dimostrata, mentre che le condizioni esterne delle masse (il contesto nel quale agisce il popolo italiano) oggi siano le stesse di quelle del volgo rinascimentale (quello sì, a quanto si sa, veramente oppresso dall’esterno e totalmente disarmato rispetto ai processi del potere, suddito oggettivamente, a tutti gli effetti e non per scelta) è qualcosa che va visto meglio, perché non corrisponde ai fatti con la stessa precisione che si rileva, invece, per il discorso sulla continuità del potere. Proviamo, dunque, a guardare più attentamente.




[1] “L’assoluzione scandalosa di ladri di milioni … ha dimostrato alle classi povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i grossi delinquenti. Ora si aggiungerà la prova che i grossi delinquenti in Italia, oltre a essere assolti, possono con i milioni rubati far processare coloro che li avevano denunciati e messi in carcere” (citato in Lodato e Scarpinato, 2008, pag. 121).

[2] Lodato e Scarpinato (2008), pag. 138.

[3] Pasolini parlava di “palazzo” per indicare un ambiente isolato nel quale si era trincerato il potere distaccandosi dalla vita e dalla gente; Beha, sulla base di un presupposto che è facile da intuire, e cioè che in un “palazzo” ci sta comunque una sola famiglia di potenti, propone la metafora del “residence” come edificio nel quale coabitano diverse famiglie usufruendo, anche, di servizi comuni.

[4] L’Italia fa parte del G8, e prima era nel G7, in alcuni momento storici neanche in ultima posizione.

[5] Si pensi, per esempio, ai rapporti annuali del CENSIS.

[6] Delle circa 500 pagine dell’edizione italiana del libro le prime 50 sono dedicate alle questioni metodologiche, e le successive 90 circa a esaminare la cultura del popolo tedesco precedente il nazismo (in particolare le sue componenti antisemite eliminazioniste).

[7] Ivan è l’antonomasia del soldato russo, come Tommy lo è di quello inglese e Fritz di quello tedesco.

[8] Maffei, 2006; Maffei et al., 2007; Maffei et al., 2008.

[9] Proprio l’esercizio sistematico del potere nel “fuori scena” (ob scenum) è all’origine della perenne oscenità del potere (Lodato e Scarpinato, 2008, pagg. 31 sgg.).

[10] Lodato e Scarpinato, 2008, pag. 6.

[11] Soprattutto di quella siciliana, perché la storia di ‘ndrangheta e camorra è un po’ diversa, anche se il punto di arrivo è per molti versi analogo (la precisazione è di Scarpinato, op. cit.).

[12] Scarpinato chiarisce: La differenza tra Stato democratico e Stato democratico liberale di diritto è nota. La democrazia è il governo della maggioranza. Il liberalismo è invece un insieme di regole che includono tra i propri obiettivi quello di limitare il potere della maggioranza (Lodato e Scarpinato, 2008, pag. 84).

[13] Anche tenendo conto del contributo dell’URSS, che non era una democrazia, il quadro non cambia. Ho svolto riflessioni più specifiche in merito in un lavoro reperibile all’URL http://www.robertomaffei.it/readarticle.php?article_id=8 .


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